Salvare il Lago Ciad, falsa emergenza
A Rimini, all'inizio del mese, si era riunita una conferenza internazionale per discutere su un piano di salvataggio del Lago Ciad, che si starebbe prosciugando, lasciando a secco "30 milioni" di persone. Sarà vero?
Il 4 e il 5 aprile si è svolta a Rimini una conferenza internazionale sul futuro del lago Ciad di cui, a torto, la stampa si è occupata assai poco. L’iniziativa è stata promossa dalla Fondazione per la collaborazione dei popoli, presieduta da Romano Prodi, e dalla Commissione per il bacino del lago Ciad, un organismo regionale fondato nel 1964, composto da Niger, Nigeria, Ciad e Camerun – i paesi che circondano il lago – Libia, Repubblica Centrafricana e, con status di osservatori, Sudan, Egitto e Repubblica Democratica del Congo. All’evento hanno partecipato il presidente dell’Unione Africana, Mohamed Ould Abdel Aziz, la presidente della Commissione dell’Unione Africana, Nkosazana Dlamini-Zuma, e 60 delegazioni.
La parola d’ordine è stata: far rivivere il lago, prezioso bacino di acqua dolce nel cuore del Sahel, che si sta prosciugando e che, senza interventi tempestivi, scomparirà del tutto entro 20-40 anni, lasciando senza risorse 30 milioni di persone che vivono sulle sue rive. La sua superficie ormai è di 2.500 chilometri quadrati soltanto, il 90% in meno rispetto al 1950.
Obiettivo del summit era racimolare denaro per avviare una prima serie di progetti, in parte già presentati in due precedenti incontri internazionali, il cui costo supera il miliardo di dollari. «Siamo qui per raccogliere 900 milioni di euro necessari per la realizzazione del piano» ha spiegato Mahamadou Issoufou, presidente del Niger e della Commissione per il bacino del lago Ciad. 80 milioni arriveranno dalla Banca africana per lo sviluppo. Unesco e Banca Mondiale hanno promesso altri contributi. Ma, ha osservato Nkosazana Dlamini-Zuma, i paesi della regione sono tra i più poveri al mondo, al massimo potranno fornire il 10% dell’importo. D’altra parte – ha detto la presidente della Commissione UA – il lago è “un patrimonio comune”, rivitalizzarlo è “un dovere di tutti”. Prodi, incaricato di recente di monitorare la realizzazione di un piano quinquennale di intervento, lo ha ribadito e ha aggiunto: «dobbiamo coinvolgere anche l’Unione Europea e la Banca Europea per gli Investimenti che, con le sue enormi capacità, può investire in Africa».
Intervistato dall’agenzia di stampa MISNA, Prodi ha poi sottolineato il legame tra povertà, flussi migratori, instabilità politica e terrorismo: «dove le popolazioni sono costrette alla miseria e a sfruttare le risorse naturali in modo sproporzionato – ha detto – il terrorismo trova campo d’azione più facile»: non a caso uno degli scontri più cruenti verificatisi in Nigeria tra forze dell’ordine e terroristi Boko Haram si è combattuto a Baga, una cittadina in riva al lago.
Quest’ultima affermazione, in particolare, richiede per forza una replica. Lo scontro a Baga del 16 aprile 2013 tra militari e Boko Haram non è stato uno dei più cruenti. Terribile è stata la successiva azione dei militari che, per stanare eventuali terroristi superstiti, hanno dato fuoco a oltre 2.000 abitazioni e hanno ucciso circa 200 civili.
Per il resto, innanzi tutto sarebbe il caso di smettere di definire poveri, “tra i più poveri del mondo”, paesi traboccanti di risorse minerarie preziose come i diamanti e l’uranio, ricchi di enormi giacimenti di petrolio che sfruttano in certi casi da decenni. La Nigeria, ad esempio, primo produttore di petrolio del continente africano, nel 2013 ha scavalcato il Sudafrica diventando anche la prima economia subsahariana, con un Prodotto interno lordo pari a 510 miliardi di dollari contro i 370 del Sudafrica. In secondo luogo sarebbe utile chiarire che “a costringere alla miseria e a sfruttare le risorse naturali in modo sproporzionato” sono la corruzione e il malgoverno senza limiti che mantengono nel sottosviluppo e nella povertà assoluta centinaia di milioni di africani. Anche il legame tra povertà e terrorismo non è così scontato. Più che la povertà, ad alimentare il terrorismo, così come il tribalismo, è il giusto risentimento di chi sa di essere povero per colpa di leadership avide, irresponsabili e incapaci. Ma il jihad ha altre radici, come è noto.
Tutto questo tuttavia passa in secondo piano di fronte al fatto che forse il lago Ciad non si sta nemmeno prosciugando. Il Cirad, Centro francese di ricerca agronomica per lo sviluppo, studia il lago da 17 anni. L’ultimo rapporto sullo stato di salute del bacino si intitola “Perizia collegiale. Lo sviluppo del lago Ciad. Situazione attuale e possibili futuri”. È stato realizzato da scienziati specializzati in paleontologia, idrogeologia, idrologia, agrosistemi, pastorizia, geografia umana e storia contemporanea. Vi si legge che il Ciad è un lago “a geometria variabile”. La sua superficie ha subito notevoli cambiamenti in epoche geologiche diverse. Inoltre varia su scala annuale e stagionale. In tempi recenti, a un periodo umido negli anni 50 e 60, quando la superficie era di circa 20.000 chilometri quadrati, e seguito un periodo di siccità durata fino agli anni 80 che ha visto una parte del lago prosciugarsi del tutto (come era già successo nel 1908), dopo di che la superficie ha ripreso a espandersi. Tra il 1991 e il 2013 la superficie annuale media del lago ha oscillato tra i 7.000 e gli 11.000 chilometri quadrati. Nello stesso arco di tempo la superficie minima rilevata è stata di 3.000 chilometri quadrati e la massima di 14.800. “I modelli climatici attuali – conclude il rapporto – non consentono di prevedere se un clima più caldo può di nuovo far crescere o diminuire il lago”.
Già due anni fa, quando il presidente del Ciad, Idriss Deby Itno, aveva presentato un “libro bianco” per salvare il lago in occasione del VI Forum mondiale dell’acqua svoltosi a Marsiglia nel marzo del 2012, gli scienziati del Cirad, presenti al summit, avevano dichiarato che le dimensioni del lago erano costanti, fatte salve le variazioni stagionali e legate alla pluviometria: variazioni – aveva inoltre spiegato Audrey Mbagogo, una ricercatrice ciadiana – di cui si avvantaggiano le popolazioni che vivono sulle sue sponde che, a seconda delle stagioni e dei periodi, passano dalla pesca all’allevamento all’agricoltura, resa particolarmente redditizia grazie alle fertili terre umide che si scoprono quando il livello delle acque si abbassa. I progetti faraonici, dal costo astronomico per allargare il bacino, alcuni dei quali peraltro irrealizzabili – sostenne nel 2012 il Cirad – non tengono conto delle conseguenze negative per gli abitanti della regione: che comunque sono due milioni, non 30, cifra quest’ultima calcolata includendo comunità che vivono a centinaia di chilometri dalle sponde.
Niente di tutto questo è emerso a Rimini dove evidentemente il Cirad non è stato invitato. Alla domanda “perché allora un falso allarme tanto drammaticamente lanciato?”, a Marsiglia Geraud Magrin, uno scienziato del Cirad, aveva risposto: «I grandi progetti sono sempre molto interessanti per diversi attori, in termini economici e politici, senza contare gli interessi più oscuri legati a possibili favori o tangenti che accompagnano questo genere di contratti».