Sacerdoti celibi: per la DSC è meglio
Proprio perché configurato a Cristo, di cui il celibato è segno, il sacerdote può vivere la “carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo”. In questa carità pastorale rientra anche il suo ruolo nella pastorale sociale.
Approfittando dell’interesse suscitato in questi giorni dal tema del celibato sacerdotale, anche a seguito delle polemiche in atto, possiamo chiederci se un sacerdote sposato posa svolgere meglio il suo ruolo a servizio della Dottrina sociale della Chiesa, oppure se questo esito sia garantito di più dal celibato. Se si interrogassero su questo punto le persone della strada, con ogni probabilità la scelta andrebbe verso la prima soluzione. Risulterebbe facile sostenere che il sacerdote sposato avrebbe più esperienza delle cose della vita sociale, economica e politica, ossia di quegli ambiti di cui si occupa la Dottrina sociale della Chiesa. I suoi insegnamenti in questi campi sarebbero più autorevoli, perché nutriti dall’esperienza diretta. Ma è veramente così? Ad uno sguardo più attento sul posto che il sacerdote occupa nel servizio alla Dottrina sociale della Chiesa parrebbe proprio di no.
Innanzitutto bisogna ricordare che la Dottrina sociale della Chiesa non è solo per i laici, anche se questi sono investiti in modo particolare dal compito di realizzarla praticamente. La Dottrina sociale riguarda tutto il soggetto Chiesa e quindi tutti i carismi dentro di essa. I vescovi, i sacerdoti e le persone consacrate hanno un loro specifico compito in questo campo.
Il Direttorio di pastorale sociale “Evangelizzare il sociale” dei vescovi italiani (1991) diceva che i sacerdoti devono “animare e guidare la pastorale sociale. È loro compito curare la formazione di credenti capaci di assumersi responsabilità nel campo sociale e politico; assicurare loro un accompagnamento e una direzione spirituale; aiutare i genitori e gli educatori ad adempiere la loro vocazione educativa per la formazione sociale e politica”. Da queste note emerge che nella pastorale sociale il sacerdote non deve essere in prima linea, ma nelle retrovie: deve animare, orientare, guidare, aiutare. Cade quindi la motivazione vista sopra: il sacerdote non ha bisogno di vivere immerso nelle pieghe del mondo profano per svolgere questa sua funzione pastorale di impegno nel mondo.
Inoltre lo stesso documento dice dei sacerdoti: “Nelle omelie, nelle catechesi, nelle istruzioni, nei ritiri spirituali, non tralascino di richiamare i doveri sociali del cristiano, l'ispirazione e le energie che gli vengono dall'adesione a Cristo e al suo Vangelo e dai sacramenti”. Questo passo ci dà due importanti indicazioni. La prima è che il sacerdote serve la pastorale sociale nella sua vita ordinaria di sacerdote, senza doversi dedicare a particolari attività sociali e politiche: nelle omelie, nelle catechesi, nelle istruzioni, nei ritiri spirituali. Il sacerdote non deve diventare altro, ma semplicemente essere e fare il sacerdote, perché ciò comprende già l’edificazione cristiana del mondo. La seconda è che egli collabora in profondità con la pastorale sociale annunciando Cristo e impartendo i sacramenti. Ciò conferma ulteriormente che è sull’altare che prima di tutto il sacerdote serve la pastorale sociale, quando consacra il pane e il vino, quando battezza o confessa, quando celebra un matrimonio cristiano. Cosa c’entra tutto ciò con la pastorale sociale? C’entra eccome, anzi c’entra prima e più di tutto il resto, perché è la grazia che purifica la natura, è la vita divina che salva la vita umana, è la nuova creazione che ricuce e sana i rapporti tra gli uomini. Alcuni sacerdoti hanno deciso di non dedicarsi più in via primaria a questo, ma di impegnarsi per la giustizia e la pace svolgendo dirette attività di solidarietà sociale. Se lo hanno fatto ritenendo insufficiente il ruolo direttamente sacerdotale hanno senz’altro commesso un errore. La storia della Chiesa è piena di santi sacerdoti “sociali”, che avevano visto proprio nella loro realtà di sacerdoti, intimamente uniti a Cristo soprattutto nel Sacrificio dell’Altare, il modo migliore anche per rendere più giusto e pacifico il mondo.
Queste note del Direttorio del 1991 vengono riprese in modo pressoché uguale dal Compendio della Dottrina sociale della Chiesa del 2004. Il paragrafo 539 dice che il sacerdote deve “far conoscere la dottrina sociale e promuovere nei membri della sua comunità la coscienza del diritto e dovere di essere soggetti attivi di pastorale sociale”. Poi aggiunge: “Tramite le celabrazioni sacramentali, in particolare quelle dell’eucarestia e della riconciliazione, il sacerdote aiuta a vivere l’impegno sociale come frutto del Mistero salvifico”. Anche in questo caso viene ribadito il concetto centrale che il sacerdote serve la pastorale sociale nella misura in cui vive a pieno la sua vocazione sacerdotale immedesimandosi a Cristo Sacerdote, quindi anche nel celibato.
L’Esortazione apostolica post-sinodale “Pastores dabo vobis” di Giovanni Paolo II (1992) spiega molto bene il rapporto tra celibato e vocazione del sacerdote: “la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa” (n. 29). Proprio perché configurato a Cristo, di cui il celibato è segno, il sacerdote può vivere la “carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo”. In questa carità pastorale rientra anche il suo ruolo nella pastorale sociale.