Saba e l’inestirpabile esigenza di appartenere
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A distanza di 25 anni dall’unica volta in cui è stata scelta una sua poesia per l’Esame di Stato, l’autore triestino potrebbe essere riproposto. Diamo uno sguardo alla sua produzione e a come l’incontro con il padre rappresentò la prima tappa del suo percorso di ricerca di un’appartenenza.

Solo una volta, nel 2000, è stata scelta una poesia di Saba per l’Esame di Stato: La ritirata in piazza Aldrovandi a Bologna. Considerato che Ungaretti è stato proposto cinque volte e Montale tre, dopo venticinque anni potrebbe essere riproposto un componimento dell’autore triestino. I tre grandi poeti del Novecento (che costituiscono per così dire una triade nel panorama letterario contemporaneo) hanno in comune più di un aspetto: sono lontani da un poeta vate dell’Ottocento come Carducci; autodidatti che non si sono formati con un percorso universitario, recuperano la tradizione in un mondo di poeti che invece si ribellano perlopiù al passato cercando strade nuove; ricercano in qualche modo, anche se con strade differenti, l’essenziale, l’autentico, l’ordinario che vale e che diventa straordinario.
Segnato dai traumi dell’età infantile, Umberto scelse il nome di Saba forse per richiamare il nome ebraico del «pane» o forse per rievocare la balia Gioseffa Schobar, che ebbe un ruolo molto importante nella sua vita. Quando il padre lasciò la famiglia, pochi mesi dopo il matrimonio, Saba crebbe nei primi tre anni, allevato più dalle cure della balia che della madre. Fino a vent’anni ebbe del padre solo il giudizio estremamente negativo che la madre gli aveva comunicato. Poi lo conobbe e comprese meglio una parte di sé che aveva in comune col padre: quella fallace idea di libertà (lo sguardo azzurrino del volto) che lo aveva portato a viaggiare, a staccarsi da Trieste, a fuggire dai legami. L’incontro con il padre rappresentò così la prima tappa del percorso di ricerca di un’appartenenza, un’esigenza che Saba avvertì come primaria nella sua esperienza autobiografica.
In Goal Saba documenta non solo la passione sportiva, ma anche l’innato desiderio dell’uomo di trovare una patria cui appartenere: la folla che tifa la squadra che ha segnato vorrebbe entrare in campo, mescolarsi ai propri campioni in un’«unita ebbrezza» per condividere quei momenti belli e partecipare anche lei alla festa; il compagno cerca di confortare il portiere che ha subito il goal; il portiere della squadra inviolata si è già unito con l’anima agli altri giocatori. Il tifo calcistico è dunque un simbolo dell’inestirpabile desiderio umano di appartenenza.
Saba intuisce bene che per trovare la patria non bisogna allontanarsi, ma si deve ritornare alle origini, recuperare quello che c’è stato consegnato fin da subito. In questo senso si comprende il suo recupero della tradizione poetica che si traduce nel ritorno alla rima «fiore/amore, la più antica difficile del mondo», nell’uso di «parole trite che non uno/ osava […], la verità che giace al fondo,/ quasi un sogno obliato, che il dolore/ riscopre amica» (dalla poesia Amai). Al contrario di molti suoi poeti contemporanei, afferma di amare la poesia semplice, di più facile accesso. Le parole più belle e più pregnanti sono anche quelle più abusate: Saba le vuole recuperare nel loro pieno significato.
Per questa ragione Saba vuole comprendere meglio i genitori da cui proviene: se al padre dedica Mio padre è stato per me l’assassino, alla madre dedica Preghiera alla madre (di cui si propone un’esercitazione) scritta dopo la sua morte. Il poeta immagina la madre finalmente giunta alla meta, al verde giardino che è il Paradiso. Anche lui vorrebbe finalmente approdare allo stesso luogo.
Se gli avessero chiesto a chi apparteneva, Saba non avrebbe avuto dubbi. Trieste è la città, la donna è Lina. Saba sentiva di appartenere alla moglie Carolina Wölfler, sposata nel 1908 con rito ebraico e più tardi con rito cattolico. Nella poesia Ed amai nuovamente (proposta come esercitazione) Saba spiega che ha scritto per la moglie il libro «di più ardita/ sincerità»: per lei Saba ricomincerebbe una nuova vita.
Saba è uno dei pochi poeti che scrive della moglie. Nella poesia A mia moglie ne esalta le virtù semplici, la paragona a «tutte/le femmine di tutti/i sereni animali/che avvicinano a Dio» e a «nessun’altra donna». In lei si trovano la gallina, la giovenca, la cagna, la coniglia, la rondine, la formica e l’ape. Il paragone istituito da Saba appare provocatorio, perché il nome di questi animali è spesso associato ad un’offesa, ancor più se abbinato a una donna: la gallina è sinonimo di scarsa intelligenza, la giovenca di scarsa bellezza, la cagna di scarsa pudicizia, la coniglia di scarso coraggio. Per questa ragione la poesia suscitò all’inizio scandalo e risate.
Saba non intendeva in alcun modo creare ilarità o adornare la moglie di un alone di comicità e di grottesco. Al contrario il poeta ritrova in queste creature grandi virtù che riconosce nella moglie: ad esempio l’operosità della formica, la fedeltà del cane e lo spirito di protezione nei confronti del padrone, le movenze leggiadre e il costante ritorno della rondine. La moglie è quindi una presenza costante e certa nella vita di Saba.
La vita di Saba è animata da una continua ricerca e dall’ardore di conoscere. L’Ulisse conclude il gruppo Mediterranee scritto tra il 1945 e il 1946: «Nella mia giovinezza ho navigato/ lungo le coste dalmate». Molti hanno raggiunto il loro porto, hanno trovato il luogo in cui riposare o in cui credere. Così non è per lui. Annota Saba: «Oggi il mio regno/ è quella terra di nessuno. Il porto/ accende ad altri i suoi lumi; me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito,/ e della vita il doloroso amore».
Pochi anni prima di morire, nella poesia Ultima, Saba si descrive ancora come un «povero cane randagio»: «Variamente operai, se in male o in bene/ io non so; lo sa Dio, forse nessuno». Riconosce di sé: «Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno». Quel desiderio di appartenenza, sempre cercato e sempre, al contempo, sfuggito, non poteva trovare soluzione né in una donna (la moglie) né in una città (Trieste).
L’ansia di compimento e di pienezza che alberga nel cuore dell’uomo può essere colmata solo da qualcosa di infinitamente più grande. «E inquieto è il nostro cuore fino a quando non riposa in te» scrive sant’Agostino nelle Confessioni.
Traccia di un approdo o di una rotta più chiara si ha nella conversione di Saba al cattolicesimo avvenuta negli ultimi anni di vita. Come i Magi, anche Saba giunge, dopo tanta fatica, a Gesù, Re dell’universo. Riconoscere Lui, il dono, il significato del tutto e comunicarlo a tutti gli uomini: questo è il compito della vita. Lo scrive in A Gesù bambino: «Fa’ che il tuo dono/ s’accresca in me ogni giorno/ e intorno lo diffonda,/ nel Tuo nome».