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UNITA' D'ITALIA

Ruini: ci ha rovinato la Rivoluzione francese

Nella città del Tricolore, l'ex presidente della Cei attacca chi accusa la Chiesa di essere la causa di arretratezza dell'Italia.

Attualità 16_06_2011
ruini

Una denuncia contro gli influenti ambienti culturali e mediatici che accusano la Chiesa di aver favorito l’arretratezza dell’Italia. Ma anche un appello a fare più figli per invertire la tendenza di una crisi demografica impressionante in uno Stato dove quella dell’immigrazione non è una soluzione. In mezzo il riconoscimento che l’Unità d’Italia è prim’ancora che nazionale, culturale e linguistica, con il merito della Chiesa e del cristianesimo che ha fatto da propulsore.

E’ questa la visione offerta dal cardinal Camillo Ruini sul 150esimo dell’Unità, a Reggio Emilia sabato scorso. Ospite all’inaugurazione della mostra “l’Italia s’è desta” curata dal presidente del Comitato Primo Tricolore, l’ex deputato del Pci, Otello Montanari, Ruini ha parlato del ruolo dei cattolici nel processo di unificazione.

Quella di Montanari con Ruini è un’amicizia che affonda le radici nei lontani anni ’60. Anni in cui l’allora professore di filosofia veniva letteralmente inviato “in armi” dal vescovo Gilberto Baroni a rimettere al centro la barra del timone, nel corso dei tanti incontri tra studenti che in quegli anni si organizzavano sul dialogo tra marxisti e cattolici e che sfioravano a volte l’eresia. A fare da contraltare per conto del Pci, Ruini trovava proprio Montanari.


Montanari è considerato da 20 anni a Reggio un comunista dissidente dopo il suo famoso appello, il “Chi sa parli”, che mirava a fare chiarezza sui tanti delitti impuniti del Triangolo della morte e che consentì di trovare a 45 anni di distanza i responsabili dell’assassinio di don Umberto Pessina, ucciso nel 1946 da ex partigiani comunisti, da sempre coperti dal partito.


Ruini ha spiegato che anche oggi permangono due diverse maniere di intendere e valutare la presenza in Italia della Sede di Pietro. Una di esse risale a Niccolò Machiavelli che riteneva la Chiesa la vera causa della disunione e della debolezza dell’Italia. «Oggi - ha spiegato alla platea del conservatorio Peri - specialmente in ambienti che hanno non poca influenza culturale e mediatica la sostanza rimane e in certo senso si aggrava, poiché si fa risalire alla grande rilevanza della Chiesa in Italia, in particolare per la presenza del Papa, e al fatto che il cattolicesimo sia la religione che ha plasmato i modi di pensare e di vivere degli italiani, l’origine della presunta debolezza e arretratezza dell’Italia come nazione, specialmente in confronto ad altri paesi europei, ritenuti più moderni e avanzati».


A questa visione Ruini ha opposto invece quella offerta dal Beato Giovanni Paolo II che, nella lettera del 6 gennaio 1994 ai vescovi italiani, sottolineava come il popolo italiano riconosca queste come «tendenze che oggi mirano a indebolire l’Italia» che «sono negative per l’Europa stessa e nascono sullo sfondo della negazione del cristianesimo».

«Papa Woijtila infatti - ha proseguito nel suo discorso - come del resto non pochi italiani, aveva una percezione più alta della vocazione storica del nostro Paese. Se potessimo, almeno in qualche misura, fare nostra questa percezione penso che ne saremmo aiutati a non indulgere alla rassegnazione».


Nel corso della sua prolusione però il cardinale ha toccato anche altri aspetti del rapporto tra l’Italia e la Chiesa. A cominciare dall’unità linguistica, che vede nel Cantico di Frate Sole di Francesco D’Assisi il suo inizio per proseguire con Dante e le “Prose della volgar lingua” del segretario di Leone X Pietro Bembo, che «propone la lingua di Petrarca come riferimento per la poesia e la lingua di Boccaccio la prosa».

«Così - ha proseguito - la lingua scritta italiana veniva ancorata a modelli di due secoli prima e si qualificava primariamente come “lingua di cultura” considerata, dopo il latino e il greco, la terza delle lingue classiche, studiata in Europa per arricchimento culturale».

Il presule reggiano, che ha sottolineato come la vocazione unitaria degli italiani fosse già una vocazione europea, ha ricordato che nella città dove nacque il Tricolore, «i reggiani, alla fine del Settecento, che si impegnano nel processo che condurrà all’Unità d’Italia sono e si considerano, praticamente tutti cattolici e vedono il clero cattolico come propria guida spirituale, morale e in larga misura anche culturale e civile». Non è un caso ad esempio che tra i 110 deputati eletti nel 1796 e che sceglieranno il primo Tricolore, non sono pochi i parroci, che già avevano operato per la Repubblica Reggiana.

«Questa era, allora, la situazione generale dell’Italia, Paese che ha conosciuto solo molto marginalmente la grande divisione dell’Europa centrale e occidentale tra cattolici e protestanti e che è rimasto fino a oggi – fatte salve le consistenti quote di immigrati non cristiani o almeno non cattolici – un Paese la cui popolazione è di religione cattolica», ha detto. 


Un processo però interrotto dalla Rivoluzione francese che «porta con sé il rifiuto di ogni fondazione trascendente dello Stato e della storia» e che produce una «lacerazione profonda tra i cosiddetti cattolici e i laici» perchè «alla base c’è la convinzione che Dio non sia razionalmente conoscibile e che la religione appartenga soltanto all’ambito del sentimento».


Contro il modello francese, il porporato ha promosso il sistema di accreditamento della Chiesa nello Stato proposto dal modello americano dove «la separazione tra Chiesa e Stato non è stata concepita in termini ostili al cristianesimo, ma al contrario è rivolta anzitutto a proteggere la religione e il suo spazio vitale da ingerenze dello Stato».

Il cardinale ha poi lodato poi la decisione di Pio IX che riconobbe la sua «missione universale, rispetto alle possibilità di sopravvivenza di un suo ruolo statuale e politico».

«Il movimento neoguelfo di Gioberti, Rosmini e altri ha tentato di trovare una soluzione - si legge nel suo intervento -, secondo la quale il Papa avrebbe dovuto porsi alla guida di una federazione di Stati italiani. Quando però, negli anni 1846-49, questo progetto dovette misurarsi con la concretezza della storia, cioè con la guerra di indipendenza contro l’Austria, fu proprio Pio IX a farlo fallire, anzi a mostrarne l’intrinseca irrealizzabilità, rifiutandosi di partecipare a questa guerra per il motivo che la Chiesa e il Papa non potevano prendere le armi a favore di cattolici contro altri cattolici. Questa decisione di Pio IX a livello immediato fu certamente perdente, ma in realtà fu davvero ed estremamente feconda. Con essa, infatti, il Papa dava la priorità alla sua missione universale, rispetto alle possibilità di sopravvivenza di un suo ruolo statuale e politico».


Poi ha concluso con un appello: «Oggi l’Italia ha troppo pochi bambini mentre è diventata terra di forte immigrazione. Se non si porrà rimedio alla crisi della natalità l’Italia non potrà far fronte efficacemente ad alcuna delle grandi sfide che stanno davanti a lei. L’immigrazione può alleggerire queste difficoltà, ma non è in grado di rappresentarne una vera soluzione anche perchè i comportamenti degli immigrati si adeguano assai rapidamente a quelli degli italiani».

Si fa strada quindi la necessità di «rilanciare le nascite» attraverso due ordini: il primo è costituito da una serie organica di provvedimenti rivolti ad eliminare le difficoltà sociali ed economiche che ostacolano la realizzazione dell’obiettivo di avere i figli che si vorrebbero». «Il secondo ordine di fattori - ha detto congedandosi - si colloca a un livello più profondo, quello delle mentalità, dei sentimenti, dei vissuti personali e familiari e della cultura sociale, che influiscono potentemente sui comportamenti demografici».


A questo proposito il cardinale ha annunciato la pubblicazione all’inizio di ottobre, come Comitato della Cei per il Progetto culturale del “Rapporto-proposta sulla demografia in Italia”, analogo a quello che «abbiamo presentato nel 2009 sull’educazione».