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OMICIDIO FAI-DA-TE

Ru486: se la Lombardia pensa a privatizzare l'aborto

L’assessore alla Sanità lombarda, Giulio Gallera (Fi), ha dichiarato che potrebbe cambiare il percorso di ricovero previsto per l'aborto farmacologico, lasciando che la donna assuma la pillola in day ospital. Finora la Lombardia aveva seguito le indicazioni dell’Aifa, date le morti e i pericoli: «Sanguinavo, mi contorcevo e il mio bambino mi cadde fra le mani, lì sei veramente sola». Ecco come l'aborto fai-da-te copre il dramma dell'omicidio dei figli in grembo, imbarbarendo la società.

Editoriali 09_12_2018

Sollecitato dalla consigliera regionale del Pd Paola Bocci, scandalizzata dal fatto che la «Lombardia è fanalino di coda per l’utilizzo dell’interruzione di gravidanza farmacologica», l’assessore alla Sanità lombarda, Giulio Gallera (Fi), ha dichiarato che dall’anno prossimo il percorso potrebbe cambiare, lasciando che la donna assuma la pillola in regime di Day Hospital. Finora la Lombardia ha invece seguito le indicazioni dell’Aifa che aveva imposto, per motivi di sicurezza, il ricovero di chi assume la Ru486 fino alla fine delle procedimento di morte del bambino, sapendo che dove l’aborto farmacologico avviene in casa molte donne sono anche morte (oltre 30 negli Stati Uniti).

Nonostante ciò già alcune regioni come Umbria e Toscana si erano ribellate alle linee guida dell’Aifa introducendo il regime di Day Hospital, ossia somministrando in ospedale la prima pillola di mifepristone, la vera propria Ru486 antiprogestinica, mandando poi la donna a casa e facendola tornare il terzo giorno per assumere la prostaglandina (che serve a stimolare le contrazioni uterine necessarie ad espellere il bambino) e rimandandola nuovamente a casa. Al contrario, tutto questo processo in Lombardia avviene in ospedale.

Le storie che dimostrano i rischi della privatizzazione dell’aborto sono spaventose. Basti pensare alla donna di 37 anni deceduta nel 2014 a Torino, dove il medico radicale Silvio Viale è stato maestro nel raggirare le linee guida dell’Aifa facendo firmare le dimissioni volontarie alle donne che assumevano la “kill pill” (così ribattezzata da quanti non vogliono nascondere la sua natura). La donna quasi alla fine della settima settimana di gravidanza (oltre cui l’aborto farmacologico non è permesso) e dimessa dopo l’assunzione del Ru486, tornò presso l’ospedale Martini il terzo giorno per la somministrazione della prostaglandina, a cui seguì uno svenimento, una dispnea e infine il decesso.

L’anno precedente anche il Boston Phoenix parlò di una giovane alla sesta settimana che abortì nel dormitorio universitario dopo aver assunto la pillola: «Mi contorcevo nel mio letto a due piazze soffrendo convulsioni e crampi debilitanti. I miei compagni di stanza, il mio migliore amico e il mio ragazzo si aggiravano intorno a me. Mi portavano antidolorifici, Balsamo di Tigre, borse d’acqua calda…ho versato moltissimo sangue» poi «ho vomitato. E, infine, mi sono addormentata». La storia di un’altra donna apparve sul sito Pregnant Pause: «Mi ha fatto urlare lamenti terribili. Mi sdraiai sul divano del mio ragazzo, la prima notte ero sola, e mi contorcevo pregando che finisse tutto o piuttosto di morire. Ho chiamato il numero di emergenza che mi avevano dato e dissi loro che gli antidolorifici non funzionavano. Mi risposero, molto cinicamente, che non c’era più nulla da fare per me» e «mi informarono che questo era normale e che dovevo aspettare». Ma «i dolori continuavano». Una volta assunta la prostaglandina la donna pensò che «è finita, ora posso cominciare a guarire, giusto? Sbagliato!!». Una settimana dopo ricominciarono i sanguinamenti per cui «chiamai di nuovo il numero di emergenza della clinica, mi risposero che era normale e bastava aspettare», mentre il ginecologo la esortò ad andare in pronto soccorso, dove scoprirono che doveva essere trasfusa altrimenti sarebbe morta. Una vicenda analoga venne raccontata su Tempi, dove Mara mi spiegò che anche quando la “Kill Pill" non era legale in Italia, le fu somministrata dal Centro salute donna di Piacenza mentre l’ospedale le diede la prostaglandina.

L’aborto avvenne in casa dopo ore di crampi e dolori. Ma c’è qualcosa di ancora più tremendo in questa vicenda: «C’è qualcosa di peggio. È stato quando sono andata in bagno per una semplice pipì, lì ho espulso tutto e ho visto il feto…Era grande così e non me lo dimenticherò mai. Lì sei veramente sola anche se c’è qualcuno che ti sta a fianco, perché sei tu che hai dentro un figlio e sei tu che sei stata felice in quei mesi in cui te lo sentivi dentro». Non c’è nulla da fare, dovette ammettere Mara, «noi donne siamo fatte anche fisicamente per la maternità, il nostro organismo sta bene quando ospita, e quando abortisci e induci le contrazioni gli fai fare qualcosa che è contro la sua natura. Ti tiri via una parte di te e ti senti svuotata. E sono convinta che con la violenza dell’aborto farmacologico lo senti anche di più».

Eppure la consigliera Bocci, incurante dei rischi o forse più preoccupata dell’accesso massiccio alla pillola abortiva, ha lamentato che in Lombardia «nel 2016 è stata utilizzata solo nel 7,8% dei casi e nel 2018 è cresciuta solo dello 0,7%, ben al di sotto della media nazionale che è del 15,7%».

Certo non deve piacere nemmeno agli operatori sanitari l’aborto farmacologico che li costringe a continuare per oltre tre giorni (mentre l’aborto chirurgico avviene in poche ore) ad avere davanti la faccia della donna che stanno facendo abortire, ricordando loro la presenza del figlio che si sta contribuendo ad uccidere. Perciò pensano molti, meglio spedire le pazienti a casa e dimenticarsi di tutto. Anche perché se la “Kill Pill” è stata creata è proprio per far dimenticare al mondo l’abominio dell’aborto rinchiudendolo nel privato delle mura di casa e lavandosi doppiamente le mani del bimbo e di sua madre.