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Romania: la fede cresciuta nel sangue dei martiri

Florentin Crihalmeanu, vescovo eparchiale di Cluj-Gherla, ricorda il dramma della Chiesa greco-cattolica.
Da "Studi Cattoilici" di dicembre

Cultura 18_12_2010
Florentin Crihalmeanu, vescovo eparchiale di Cluj-Gherla, in Romania

 

Il primo dicembre 1948 il regime comunista in Romania attaccò frontalmente la Chiesa greco-cattolica dichiarandola «fuorilegge». Da quel giorno iniziò una persecuzione sistematica e durissima. Furono imprigionati tutti i vescovi, circa seicento sacerdoti e moltissimi fedeli; vennero inoltre confiscati i beni patrimoniali che furono consegnati alla Chiesa ortodossa e ad altre realtà statali. Dopo la caduta del comunismo, con un decreto legge del 24 aprile 1990 la Chiesa greco-cattolica è stata reintegrata nei suoi diritti, ma la strada per riottenere la restituzione di quanto è stato sottratto è ancora lunga. Abbiamo incontrato S.E.R. Mons. Florentin Crihalmeanu, vescovo eparchiale di Cluj-Gherla, chiedendongli una panoramica sui martiri del terrore comunista e un bilancio sull’attuale dialogo con la Chiesa ortodossa.

 

Come scoprì la sua vocazione?

Non sono uno di quelli che sin dall’infanzia ha pensato a diventare sacerdote. Dai miei genitori, e in particolare da mia madre, ho ricevuto però un’educazione cristiana che mi ha aiutato a vivere con coerenza la fede anche sotto il regime comunista. Terminata la scuola superiore e poi il servizio militare, mi sono iscritto alla Facoltà di Tecnologia delle macchine, sono diventato ingegnere e ho iniziato a lavorare in un’azienda a Cluj.

Tra le figure che il Signore pose sul mio cammino mentre cercavo la «mia» strada, ce ne fu una determinante. Era un uomo che diceva di essere un professore. Un giorno ci incontrammo fuori dalla chiesa dopo la Messa della domenica (i comunisti avevano permesso a Cluje la celebrazione di una Messa in rito latino nella chiesa degli Scolopi). Voleva assolutamente incontrarmi per «parlarmi di Dio». Era un sacerdote, ma lo seppi soltanto due mesi dopo. Continuammo a incontrarci insieme con un gruppo di giovani e andavamo anche in gita insieme; c’erano anche dei giovani sacerdoti, ma non potevano dichiararlo, era proibito, e inoltre io ero appena entrato nel gruppo, per cui sarebbe stato rischioso esporsi.

Quel professore diventò il mio padre spirituale e mi condusse gradualmente al sacerdozio. Si faceva chiamare padre Pintea, ma il suo vero nome era Pantelimon Asteleanu. Venne ordinato durante il regime e dovette essere sempre molto cauto.

La sua casa era nel cuore della città, al terzo piano di un grande edificio, con una piccola uscita su una via centrale. Sapeva che dall’altra parte della via c’era un bar con una persona che leggeva il giornale tutto il giorno, ma che aveva il compito di controllarlo.

Osservava sempre chi entrava e chi usciva. Quando andavamo a trovarlo nei giorni delle feste, per esempio per cantare insieme per Natale, celebrava la Messa di nascosto, con le persiane chiuse. Ci raccomandava di non venire mai in gruppo.

 

Quale fu la strategia del regime nei confronti della Chiesa greco-cattolica?

In un primo periodo si tentò di sterminarla. I nostri vescovi furono messi in una prigione molto dura come quella di Sighet, nella zona del Maramures¸ a un paio di km da quello che era il confine con l’Unione Sovietica. Sighet è un vero monumento della sofferenza. In un secondo periodo cercarono di «rieducare» i nostri pastori: ricevevano delle lezioni in prigione per comprendere la «bontà» del regime comunista... Tra gli esperimenti più crudeli vi fu quello del campo di Pitesti. Dicono che abbiano usato sui prigionieri anche sostanze radioattive. Chi è riuscito a sopravvivere a quel campo non è mai tornato normale. Gli scampati sono persone completamente distrutte dal punto di vista fisico e psichico.

Un altro gulag terribile era quello di Jilava. Mettevano i prigionieri in cantine sotterranee riempite d’acqua. Stavano in acqua fino alle ginocchia e questa condizione impediva loro di addormentarsi. Erano costretti a espletare i loro bisogni in quell’acqua... Chi scampava non riusciva a dimenticarsi l’odore di quella prigione...

Nel campo di Sighet adesso sono esposti i pannelli con i tipi di torture a cui venivano sottoposti i prigionieri. Ricordo con particolare impressione quello del gatto sulla schiena: torturavano gettando dei gatti sulla schiena denudata delle vittime... veramente diabolico. Più tardi, il governo rumeno dovette firmare dei trattati internazionali e rilasciare i prigionieri «politici». Questo è stato in un terzo periodo, quello della cosiddetta tolleranza, ma in realtà il controllo rimase molto forte. Un sorvegliato speciale era tenuto ogni settimana a preparare un rapporto in cui descriveva tutto quello che aveva fatto. Si confrontava poi questo rapporto con quello redatto dalle spie della polizia segreta e si cercavano le differenze. Se si trovavano divergenze, si veniva chiamati a interrogatori più duri.

 

Vuole raccontarmi qualche dettaglio dei vostri martiri?

Tra le vittime della persecuzione vorrei ricordare mons. Vladimir Ghika (1873-1954), di cui ora è aperto il processo di beatificazione. Sono ancora in vita delle persone che raccontano degli eventi straordinari su di lui, tra queste c’è padre Tertulian Langa che ha raccontato in un libro i 16 anni di sevizie nelle prigioni comuniste: ebbe come padre spirituale proprio mons. Ghika. Tra i suoi racconti ce n’è uno che fa pensare al miracolo. In un’occasione fu costretto a portare dei pezzi di metallo molto pesanti. Li portavano in due. A un certo momento il suo compagno inciampò e cadde: il metallo cadde sulla mano di padre Langa spezzandogliela; lo portarono dal medico che gli esaminò la mano e confermò la necessità di un intervento, ma gli disse di tornare il giorno successivo. Padre Langa rimase in cella a piangere per il dolore insopportabile. Era solo. Nella notte gli apparve la figura di mons. Ghika che gli toccò la mano. La mattina successiva lo portarono all’ospedale e il chirurgo osservando la mano si arrabbiò con i secondini dicendo: «Avete sbagliato persona, questo qui non ha niente alla mano!». Era guarito.

I vescovi greco-cattolici furono prima imprigionati in monasteri ortodossi e si cercò di convincerli a passare alla religione ortodossa, poi furono portati in blocco a Sighet. Cercarono di sparpagliarli in varie celle, ma si resero conto che riuscivano a convertire gli altri detenuti e allora li misero insieme per controllarli meglio. Li videro pregare insieme e glielo proibirono, non gli diedero il permesso neppure di stare seduti o di parlare tra di loro. Molti episodi si possono trovare nelle Memorie del cardinale Iuliu Hossu (1885-1970), che sono già tradotte in italiano, ma che non saranno pubbliche fino a che non sarà concluso il suo processo di beatificazione. In questi anni si sta iniziando a scrivere la storia di diversi martiri e si è partiti dalla vicenda di Valeriu Traian Fren?iu (1875-1952) e dei suoi compagni di prigionia. Era il più anziano di quelli incarcerati e morì a Sighet. Il problema di queste cause è che non ci sono più testimoni. Non è poi scontato che i martiri abbiano un processo di beatificazione rapido: bisogna dimostrare che abbiano accettato la propria morte e che siano rimasti vicini alla fede sino in fondo. Un’altra figura importante è quella di Vasile Aftenie (1899-1950), che morì sotto tortura a Bucarest. Su di lui è interessante il racconto del sacerdote che ne celebrò il funerale. Vennero a trovarlo due persone vestite di nero e gli dissero di celebrare un funerale per un presunto zio. Misero in chiesa la bara e poi andarono a fumare fuori. Il sacerdote rimase colpito da questo distacco e al contempo si accorse che la bara non era ben chiusa: era troppo piccola per il corpo che conteneva; nel tentativo di chiuderla, involontariamente la aprì del tutto. Con grande sorpresa riconobbe il volto sfigurato, con le mandibole distrutte e la barba strappata del vescovo Aftenie...

Lo scorso 30 ottobre è stato beatificato il vescovo di Oradea Szilard Bogdanffy (1911-1953). Venne consacrato vescovo di nascosto: fu imprigionato subito dopo e mandato a lavorare in una miniera di piombo. Morì nei pressi di Aiud dopo essere stato sottoposto a violenze e fu lasciato morire senza cure. In quel campo di sterminio non c’erano vetri alle finestre. Le persone camminavano tutto il giorno intorno alla cella per non morire congelate. Soltanto verso mezzogiorno arrivava nella cella un raggio di sole. Smettevano allora di camminare per lasciarsi colpire dal raggio. Si addormentavano subito per la stanchezza, ma appena il raggio era passato si svegliavano per il freddo e tornavano a camminare.

 

Quali sono gli attuali rapporti con la Chiesa ortodossa?

Dopo la caduta del comunismo il dialogo con la Chiesa ortodossa è stato abbastanza confuso. Alcuni fedeli cattolici hanno cercato di riprendersi le chiese che erano state sottratte dal governo e date agli ortodossi. Come vescovi ci siamo opposti a questo comportamento, non vogliamo riprenderci le chiese con la forza, ma ricorrendo ai tribunali o al dialogo. Il 28 ottobre 1998 sono iniziati i lavori della Commissione di dialogo a livello gerarchico tra la Chiesa ortodossa e quella greco-cattolica, che sono durati sino al 24 febbraio del 2004. In questo periodo ci siamo incontrati una volta all’anno e possiamo dire che qualcosa si è mosso. Il fatto di stare alla stessa tavola è già qualcosa... All’inizio i nostri fedeli erano contrari. Non volevano che partecipassimo, perché erano convinti che non avremmo ottenuto la restituzione delle chiese. Noi rispondevamo invece: «Dovete avere pazienza, dobbiamo provare a sentire le loro ragioni». Abbiamo chiesto la restituzione delle circa 2.500 chiese che ci sono state sottratte; siamo riusciti a ottenere la restituzione di una ventina. Non di più: è molto poco per considerarlo un dialogo vero.

 

C’è speranza che qualcosa possa cambiare?

La situazione si è bloccata nel 2004, anche se per fortuna non ci sono più le tensioni di prima. Restano situazioni difficili. Per esempio nella mia eparchia di Cluj-Gherla abbiamo due chiese della stessa capacità a distanza di 200 metri una dall’altra. La comunità ortodossa ha iniziato a celebrare nella nostra chiesa perché nella loro hanno messo le impalcature per delle ristrutturazioni. Hanno detto: «Dobbiamo ristrutturarle e non possiamo celebrare la Messa, abbiamo bisogno della vostra chiesa...». Noi abbiamo risposto in modo positivo, ma questi lavori non sono mai terminati... E la nostra comunità nel frattempo celebra in una casa privata. Dei 22 monasteri che erano di nostra proprietà nel 1948, non ne è stato restituito nessuno. Riconosco che con i monasteri la situazione è più difficile, perché non possiamo dire: «Adesso arrivano i nostri monaci, andate via». Vorremmo, però, avere la possibilità di fare un pellegrinaggio una volta l’anno, senza interferire con le liturgie ortodosse. Questi luoghi sono significativi per noi perché molte persone lì hanno fatto i voti o sono stati ordinati sacerdoti. Nelle comunità dove c’era una sola chiesa greco-cattolica e che adesso è utilizzata dagli ortodossi, abbiamo chiesto la possibilità di celebrare con alternanza. Abbiamo provato a suggerire: «Celebrate voi a una certa ora e poi noi dopo». Ma loro hanno risposto: «No. È inaccettabile che i cattolici celebrino sui nostri altari, come noi non possiamo celebrare su quelli cattolici». Ma in Occidente in Spagna, in Francia e in Italia celebrano senza problemi nelle chiese date loro dai cattolici...

Un esempio può chiarire ulteriormente la situazione. Qualche tempo fa si è svolta una cerimonia di una benedizione di una nostra chiesa alla quale ha partecipato anche il metropolita ortodosso di Timosoara, che è la persona più aperta del loro sinodo. Al momento della Comunione il metropolita ortodosso, che ha aveva partecipato a tutta la liturgia, ha fatto la Comunione recandosi all’altare. Da questo gesto è scoppiato uno scandalo tremendo: in quello stesso anno è stato messo sotto giudizio dal sinodo ortodosso e alcuni hanno proposto di scomunicarlo. Lui ha chiesto perdono, ha detto che non voleva diventare cattolico, ma che si era sentito in piena comunione con la nostra liturgia e che aveva dato spazio al suo cuore senza forse valutare troppo le conseguenze e le interpretazioni dei suoi fedeli. Alla fine c’è stata una votazione e non è stato scomunicato, ma quanti volevano scomunicarlo hanno ribadito: «Non è sufficiente. Dobbiamo fare un decreto nel quale sia scritto esplicitamente che non si può partecipare a nessun Sacramento dei cattolici». Con questa decisione hanno tagliato del tutto il dialogo.

 

Qual è la percentuale dei fedeli greco-cattolici?

La percentuale dei greco-cattolici è molto bassa. Siamo sotto l’uno per cento. Gli ortodossi sono l’86.8% e i cattolici di rito latino sono 1.3% e si trovano in particolare in Transilvania. Come le dicevo in precedenza, il dialogo non è progredito. Non possiamo pregare insieme neppure durante la settimana in cui si prega per l’unità dei cristiani. Noi chiediamo allo Stato romeno di garantire veramente la libertà di culto. I cattolici alcune volte vengono trattati da stranieri. Ci vorrebbe una legge per regolamentare la situazione di questi beni espropriati. Abbiamo fatto un proposta, chiedendo in primo luogo la restituzione delle cattedrali e di alcune chiese simbolo. Ma non siamo stati ascoltati. Ci sono chiese che sono la copia in miniatura di san Pietro e che hanno persino le statue dei Papi... Come si fa dire che sono ortodosse? Abbiamo anche costruito nuove chiese e dove abbiamo costruito non abbiamo richiesto la restituzione per non creare tensioni. Vorremmo la stessa comprensione anche da parte loro, ma fino adesso non c’è stata vera collaborazione.

 

Da Studi cattolici n. 598, dicembre 2010, pp. 847-849