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IL CASO

Rohingya, il popolo dei profughi che nessuno vuole

Nel momento in cui il tema “immigrazione” e “profughi” è all’attenzione internazionale la situazione dei boat people rohingya è davvero paradossale. Sono una  minoranza musulmana di un Paese ufficialmente buddista (Myanmar) sono sempre stati oggetto di pogrom e persecuzioni da parte del regime. 

Esteri 17_09_2015
Profughi rohingya alla deriva

I buddisti sono per la tolleranza & compassione in casa d’altri, ma cambiano idea quando sono in casa loro? Certo, non tutti i buddisti sono uguali e sono pure divisi in diverse scuole. Lo stesso può dirsi per i musulmani, gli induisti, gli ebrei e i cristiani. I musulmani, per esempio, si combattono di più tra sunniti e sciiti di quanto facciano, nelle loro frange più radicali, con tutti gli altri infedeli. Ma in un momento in cui il tema “immigrazione” e “profughi” è all’attenzione internazionale la situazione dei boat people rohingya è davvero paradossale. 

Per chi non lo sappia, si tratta della minoranza musulmana di un Paese ufficialmente buddista, una minoranza cui l’eco delle gesta del Califfato (i mezzi di comunicazione  di massa li hanno anche in Myanmar) non giova certo alla popolarità in patria. Stanziati nello Stato birmano occidentale del Rakhine, al confine col Bangladesh, sono non solo di religione, ma anche di etnia diversa dagli altri birmani. Somaticamente sono più simili agli indiani che agli altri popoli asiatici. Perciò, nei primi anni Ottanta sono stati privati della cittadinanza, così che non sono più né birmani né bengalesi. Anzi, non sono niente. Pare che siano stati portati in Birmania dagli inglesi, che fino al 1948 dominavano anche sul Bengala. Altri li raggiunsero nel 1971, all’ora della sanguinosa guerra di indipendenza dal Pakistan e la conseguente nascita del Bangladesh (quando George Harrison, l’ex Beatle seguace di Hare Krishna, organizzava concerti per sostenere la libertà di un popolo ben presto divenuto uno dei più poveri della terra). 

Ma a certi monaci buddisti non sono mai andati giù, e i rohingya sono sempre stati oggetto di pogrom, attacchi, villaggi incendiati e tutto l’armamentario di nefandezze che di solito accompagnano la pulizia etnico-religiosa ai danni di una minoranza invisa. Quanti morti hanno provocato i decenni di questa storia? Non si sa. Si sa solo che attualmente mezzo milione (forse) di questi perseguitati sono scappati in Bangladesh e altri centomila (forse) sono sparsi tra la Malaysia e l’Indonesia, più qualche altro migliaio (forse) in Thailandia. Gli altri, tutti gli altri, vagano su bagnarole per i mari. Nessuno li vuole. I Paesi sunnominati hanno, infatti, chiuso le frontiere, bastando loro quelli che già hanno. Solo la Marina thailandese li soccorre, sì, però in mare: porta viveri, acqua, magari ripara il motore della bagnarola, poi li  lascia lì e se ne va. Ed è già tanto, rispetto agli altri vicini. 

Tutti i Paesi limitrofi sanno benissimo che, se aprissero le porte, valanghe di rohingya si riverserebbero a casa, e non solo quelli in acqua. Infatti, ripetiamo, nessuno sa quanti ce ne siano ancora in Myanmar a fare i “profughi interni” (Idp, Internal displaced people secondo la definizione internazionale). Ora, uno potrebbe pensare: visto che sono musulmani, perché non li accolgono i correligionari Pakistan e Indonesia? Risposta (cinica, ma verace): perché i poveri non li vuole nessuno. Si ribatterà che detti Paesi non sono affatto ricchi. È vero (fino a un certo punto), anche se il Pakistan, per esempio, è la quarta o quinta potenza nucleare. E tuttavia, di Paesi musulmani ricchi, e pure sfondati, ce ne sono. Però, questi ultimi, si sono affrettati a circondarsi di muri, e non lasciano entrare un solo profugo, neanche uno. 

Perciò, tutti i disperati (e i profittatori: ci sono anche questi) del pianeta vengono in Europa o in altro Paese occidentale. Cioè, in quelli di tradizione cristiana, nei quali basta la foto di un bimbetto morto per scatenare emozioni di massa, tali da costringere i governanti ad aprire le porte per non perdere voti. Eh, hanno voglia le élites di affannarsi per spalmare la “laicità” come si fa con l’asfalto. L’erba è più forte del bitume e, senza una manutenzione continua, meticolosa, ossessiva, rispunta dove meno te l’aspetti. L’altruismo e la carità nei confronti dei più svantaggiati li ha insegnati il cristianesimo. Sono, sì, diventati, a forza di catrame, buonismo suicida, ma che la fiamma da cui proviene si spenga del tutto non conviene a nessuno. Il mondo è un inferno in terra, basta guardarsi attorno: immaginate come sarebbe senza quel che rimane del cristianesimo.