Rivolta in Kenya, solo la Chiesa ha il coraggio di accusare la corruzione
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È di 23 morti e un centinaiao di feriti il bilancio degli scontri in Kenya durante le manifestazioni di protesta a seguito della decisione del governo di aumentare le tasse. Solo i vescovi e i missionari hanno il coraggio di accusare il nemico numero uno e cioè la corruzione della classe dirigente.
Sono almeno 23 le persone uccise e centinaia quelle ferite in Kenya durante le manifestazioni di protesta svoltesi il 25 giugno nella capitale Nairobi e in altre città, molte uccise dalla polizia che, come in altre occasioni, ha sparato ad altezza d’uomo. A scatenare le proteste è stata la proposta di introdurre nuove tasse al fine di incrementare di 2,7 miliardi di dollari le entrate dello Stato, importo ritenuto necessario per ridurre il deficit di bilancio e contenere l’elevato indebitamento, attualmente pari al 68% del Prodotto interno lordo, condizione richiesta dagli istituti di credito delle Nazioni Unite per concedere nuovi, indispensabili prestiti. Della legge finanziaria stavano discutendo i parlamentari quando migliaia di persone, per lo più dei giovani, hanno invaso il centro della capitale, hanno raggiunto la sede del parlamento, hanno cercato di entrare nell’edificio riuscendo, prima di essere respinte dalle forze dell’ordine, a dar fuoco ad alcuni locali.
Durante le scorse settimane era stata annunciata tra le altre una nuova tassa annuale di circolazione per gli automezzi, pari al 2,5% del loro valore, e una “tassa ecologica” sulla maggior parte dei manufatti locali e questo già aveva suscitato preoccupazione e malumore che l’opposizione aveva colto e amplificato. Ma quando la gente ha saputo che sarebbero aumentate anche le tasse su generi di base come il pane (del 16%), l’olio da cucina (del 25%) e lo zucchero non ha più sentito ragione. Il costo della vita è già elevato, mette in difficoltà milioni di kenyani anche di ceto medio, ulteriori rincari sono insostenibili.
Il governo ha provato a giustificare il provvedimento. «O aumentiamo il debito o aumentiamo le tasse» aveva detto il presidente William Ruto cercando il dialogo. Ancora qualche giorno fa ha provato a spiegare che le difficili scelte in atto erano necessarie per risanare l’economia e alleggerire il peso del debito estero che costringe a spendere 61 centesimi di ogni dollaro ricavato dalle imposte per restituire fondi ricevuti in prestito e gli interessi maturati. Le nuove tasse previste dalla legge finanziaria sono essenziali – aveva detto – «per riscattare il nostro paese e affermare la nostra sovranità», parole che suonano false, demagogiche e soprattutto irrilevanti a chi ogni giorno deve fare i conti con spese alle quali non riesce a far fronte e che per “debito” intende i conti non pagati al negozio di alimentari con il rischio di non ottenere più credito, gli arretrati dell’affitto, la bolletta della luce scaduta.
Ma proprio gli argomenti più volte usati dal presidente con convinzione, delineando un futuro catastrofico per il paese, con la prospettiva di dover dichiarare default dopo averlo di recente evitato grazie a nuovi prestiti, rendono sorprendente la sua resa di fronte alla collera dei giovani. Il 25 giugno il parlamento ha tuttavia approvato il disegno di legge che include le nuove tasse, apportando solo qualche modifica per alleggerire gli oneri fiscali su alcuni prodotti e i conseguenti rincari. Per diventare legge occorre la firma del capo dello Stato entro 14 giorni. Il 26 giugno Ruto ha annunciato che non firmerà e che la legge quindi sarà ritirata. Rivolgendosi alla nazione dai canali televisivi ha detto che, invece di aumentare le entrate grazie alle maggiori imposte, il governo proverà a risanare i conti pubblici adottando un severo programma di austerità pubblica. La risposta degli organizzatori delle proteste è stata la richiesta delle sue dimissioni e l’appello a continuare la lotta.
Di fronte a una situazione così critica, esplosiva, i vescovi della Conferenza episcopale del Kenya, che nei giorni scorsi avevano espresso formalmente al governo la loro preoccupazione in merito ai contenuti della legge finanziaria, hanno deciso di prendere la parola e anche loro lo hanno fatto, poche ore prima del presidente Ruto, usando la televisione, con un messaggio letto in diretta, intitolato “Dio salvi il nostro amato Paese”, con il quale hanno esortato il governo kenyano a mostrarsi responsabile e a dare risposte concrete alla popolazione. «Il paese sanguina – hanno detto – il governo deve ascoltare la sofferenza dei cittadini, deve affrontare la scottante verità che le famiglie soffrono enormemente. Supplichiamo il Presidente di ascoltare la voce dei tanti in sofferenza». I giovani hanno reagito di fronte all’insensibilità del governo, dicono in sostanza i Vescovi kenyani, questo non giustifica la violenza, ma esige delle risposte, essendo la loro collera motivata.
«Si è trattato di una vera protesta popolare, inizialmente pacifica anche se si sono infiltrati provocatori e malviventi. Quello che è da sottolineare è che per la prima volta il popolo kenyano è sceso in piazza non richiamato da qualche leader politico, ma in maniera spontanea, sull’onda del tam tam dei social media». A spiegarlo, intervistato dall’agenzia di stampa Fides, è padre Alfonso Poppi, missionario della Fraternità sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, da molti anni in Kenya. Più esplicito e diretto dei vescovi, padre Alfonso ardisce formulare una denuncia, pronunciare e ripetere la parola che invece mai risuona nelle sale delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, dei ministeri occidentali, quello italiano incluso, quando si parla di Africa, quando si incontrano i leader africani, quando si ascoltano le loro richieste e si propongono aiuti, “cooperazione alla pari”, programmi di sviluppo.
La parola sempre taciuta è “corruzione”, l’origine di tutti i problemi economici dei paesi africani: «La rabbia della gente – dice padre Alfonso – è accresciuta dalla corruzione dilagante che fa sì che i soldi delle tasse vengono sprecati in lussi dei quali beneficiano i ‘soliti noti’. L’assalto al Parlamento, pur condotto con il concorso di elementi delinquenziali, è il simbolo dell’esasperazione derivante dal divario tra la popolazione e una classe dirigente percepita come corrotta e indifferente alla sorte della gente comune».