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IL BUON USO DELLE PAROLE / 17

Ripetere giova, se è fatto con arte

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Tante figure retoriche consistono in una ripetizione frutto di una cosciente e sapiente disposizione della stessa parola. In fondo, è parte della natura dell'uomo che è portato a dire e ribadire.

Cultura 03_06_2024

Se spesso il silenzio vale molto più di mille parole, è innegabile che l’uomo è portato per natura a parlare, a dire e a ribadire, cioè a ripetere tante volte. Talvolta, le ripetizioni sono sintomo di povertà lessicale e di scarsa conoscenza dei sinonimi. Quante volte nei temi scolastici gli insegnanti annotano a fianco dello scritto dello studente l’espressione «ripetizione lessicale» che sottolinea la pesantezza di un elaborato in cui emerge una scarsa padronanza della lingua.

Ripetere può essere, però, anche un’arte. Tante figure retoriche di parola consistono in una ripetizione frutto di una cosciente e sapiente disposizione della stessa parola all’interno del testo poetico o prosastico.
L’anadiplosi, chiamata anticamente anche reduplicatio, consiste nella ripetizione di una parola, già espressa alla fine di una frase, all’inizio di quella successiva. Gli scrittori provenzali utilizzavano questa figura retorica tra la fine di una stanza e l’inizio di un’altra: era chiamata coblas capfinidas. L’immagine che chiudeva una strofa apriva quella seguente.

Nel I cerchio dell’Inferno Dante si mostra maestro dell’anadiplosi quando scrive: 

Ma passavam la selva tuttavia.
La selva, dico, di spiriti spessi (Inferno, IV, vv. 65-66)

La poesia di Saba intitolata La capra è tutta costruita su figure retoriche della ripetizione, evidenziate dal corsivo:

Ho parlato a una capra
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
alla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria
.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Saba gioca più volte sulla coblas capfinidas (tra prima e seconda strofa, tra seconda e terza) e sull’anadiplosi. Quale effetto produce l’ossessiva ripetizione degli stessi termini? Senz’altro l’impressione del monotono e reiterato verso della capra.
Anche l’anafora (dal greco anaphérein «ripetere») consiste nella ripetizione di una parola o di un gruppo di parole all’inizio di frasi o di versi successivi, come quando nel monologo Francesca esclama: 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, […]
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, […]
Amor condusse noi ad una morte.

Con l’epifora si ripete alla fine del verso la stessa parola o gruppo di parole come ne La pioggia del pineto, quando D’Annunzio vuole sottolineare il graduale abbassamento del suono della cicala che lascia spazio alla rana:

Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.

Si spegne indica qui la pausa musicale che segue alle altre note.
L’epifora è molto utilizzata per le preghiere e le invocazioni. Pensiamo alle litanie della Madonna che si concludono con l’espressione Ora pro nobis. L’epifora non solo ribadisce il concetto, ma agevola anche la sua memorizzazione e quella del testo poetico nel suo complesso.

Anche l’epanalessi  (o  geminatio), che consiste nella ripetizione di una parola raddoppiandola di seguito all’interno di un’unità testuale, ha una particolare forza espressiva, come ben sa Dante che se ne avvale spesso quando vuole sottolineare una particolare enfasi emotiva. Lo vediamo nell’invettiva contro Pistoia nel canto XXX dell’Inferno:

Ahi Pistoia Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri
poi ch’n mal fare il seme tuo avanzi?

Lo vediamo nell’incontro del poeta col papa simoniaco Nicolò III. Nella scena avviene il ribaltamento parodistico della realtà. Il Papa è divenuto l’assassino che deve confessare il nome del mandante se vuole evitare la pena della propagginazione cui è condannato. Non sapendo chi sia l’anima di colui che lo invita a parlare, Niccolò III (sul soglio pontificio dal 1277 al 1280) crede che sia già giunto il dannato che è destinato a sospingerlo giù nel foro e a rimanere con le gambe in fuori. Così esclama:

[…] Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se' tu sì tosto di quell' aver sazio […].

Qui troviamo due figure di parola come l’anadiplosi e l’anafora. La comicità della scena è accresciuta dalla distanza tra il Dante auctor, che crea la situazione, e il Dante viator, che è ignaro di tutto. Virgilio subito consiglia il poeta:  «[…] Dilli tosto:/ “Non son colui, non son colui che credi”». L’epanalessi crea qui un effetto ironico. Altre volte la stessa figura può essere utilizzata per accrescere il piano emotivo come quando Dante incontra Beatrice nel Purgatorio, dieci anni dopo la morte, e Beatrice gli dice: «Guardaci ben! Ben son ben son Beatrice». Ripetere giova, senz’altro, se è fatto con arte!



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