Riforme, alcuni punti fermi
Molto fumo, poco arrosto. Il governo affida a 35 esperti il compito di scrivere la riforma della Costituzione e fissa un calendario di lavoro per i prossimi 18 mesi. Sui punti da affrontare ecco alcuni suggerimenti.
Siamo alla panna montata della panna montata. Tra grandi squilli di trombe istituzionali e mediatiche il governo ha annunciato quale inizio di un rapido processo di riforme un disegno di legge che fissa semplicemente un calendario e un metodo di lavoro, ma che per il resto è privo di qualsiasi contenuto sostanziale. Non potendo per definizione avere una linea comune su alcunché in una materia così cruciale e delicata, nel suo disegno di legge il governo si limita a fissare tempi e metodi di un processo che, pur in assenza di alcun previo accordo politico, dovrebbe giungere nell’arco di 18 mesi a quella riforma generale della Costituzione che si attende invano da circa trent’anni.
Il cuore del progetto consiste nel lancio della patata bollente a una commissione di 35 esperti, per lo più professori di diritto costituzionale, i quali dovrebbero elaborare proposte “condivise” (come si ama dire adesso) da sottoporre poi al giudizio ed eventualmente all’approvazione del Parlamento. Sembra di essere alle scene iniziali del film di animazione “Le avventure di Peter Pan”, con il folletto protagonista in volo tra bellissimi colori e musiche fra i tetti di Kensigton e l’Isola-Che-Non-C’è. Poi guardando meglio ci si accorge che Peter Pan ha il volto di Gaetano Quagliariello e l’incanto finisce. Ad aumentare, se ancor ce ne fosse bisogno, il senso di disagio sono le poche notizie su elementi di contenuto che pur circolano. La questione numero uno sarebbe la “forma di governo”, che invece è solo il culmine di un sistema che va innanzitutto modificato alla base.
Ad ogni modo poiché è pur vero che non si deve disperare a priori di qualsiasi tentativo in buona fede (e non c’è ragione di credere che questo non lo sia) proviamo qui a dare un nostro piccolo contributo di idee accennando a quali possono essere a nostro avviso dei punti-chiave dell’auspicata riforma, espressi beninteso in forma di principi e non di puntuali elaborazioni giuridiche che competono ai giuristi.
1. Coincidenza tra chi decide la spesa e chi decide il prelievo fiscale. Ogni livello di governo, locale, regionale, statale, raccoglie le proprie imposte -- nei campi d’imposizione che gli sono rispettivamente riservati -- e con quanto raccoglie si paga le spese, punto e basta. Con la libertà, se riesce a essere più efficiente, di premiare i propri amministrati con una minor pressione fiscale. Con l’obbligo di cedere a livelli di governo soprastanti le competenze che non riesce a finanziare. Per razionalizzare e ridurre la spesa pubblica non c’è altro modo più democratico e più efficace di questo, basato sulla concorrenza virtuosa fra istituzioni e sulla piena responsabilità fiscale di chi governa. L’esperienza dei Paesi ove questo sistema è già in atto lo dimostra in modo inconfutabile.
2. Netta distinzione tra governi e assemblee elettive. La funzione più importante di tali assemblee non è l’iniziativa in campo legislativo bensì il controllo della spesa dei governi. Perciò è determinante: a) che anche il capo del governo nazionale sia eletto direttamente dal popolo, come già accade con i sindaci e i presidenti di Regione, e possa direttamente nominare e revocare i propri ministri; b) che ci sia incompatibilità assoluta e previa fra ruoli di governo e ruoli parlamentari. Come bene oggi si vede, le assemblee elettive non possono svolgere con efficacia il loro fondamentale ruolo di controllori della spesa pubblica se sono composti di persone che vedono le cariche di governo come il culmine della loro carriera politica. Si tratta di funzioni diverse e tendenzialmente antagonistiche verso cui devono volgersi persone con aspettative e profili politici differenti.
3. Fine della piaga delle competenze concorrenti, fonte di confusione, di burocratizzazione e crescita irrefrenabile della spesa. Ogni livello di governo deve avere competenze ben distinte che poi, quando necessario, verranno coordinate tra loro in forza del principio di leale collaborazione inteso però come dovere politico e non come vincolo burocratico.
4. Rottura di tutti i monopoli statali dei servizi pubblici a partire da quelli fondamentali della scuola e della sanità, con la conseguente libertà concretamente riconosciuta a famiglie e studenti di optare per l’offerta formativa e rispettivamente per l’offerta sanitaria ritenute migliori. Nel caso della sanità, dove in Lombardia questo metodo è già stato pienamente applicato, esso ha tra l’altro contribuito a un grande miglioramento del servizio offerto dagli ospedali cosiddetti “pubblici” (anche se poi quelli privati accreditati lo sono altrettanto). Nel caso della scuola accadrebbe di certo lo stesso.
Se quella del governo Letta è l’Isola-Che-Non-C’è, osserverà qualcuno, che dire di questa? La mia risposta è: “E’ l’Isola-Che-Ci-Deve-Essere se non vogliamo andare a fondo tutti quanti”.