Riforma Renzi-Boschi, perché No
Puntare sulla libertà responsabile della persona oppure sulla capacità di controllo dello Stato? Giocare quindi la carta della sussidiarietà oppure cercare salvezza in una sempre maggiore concentrazione del potere? Di fronte alla crisi dello Stato italiano la questione di fondo è questa. Tutto il resto viene di conseguenza.
Puntare sulla libertà responsabile della persona oppure sulla capacità di controllo dello Stato? Giocare quindi la carta della sussidiarietà oppure cercare salvezza in una sempre maggiore concentrazione del potere? Di fronte alla crisi dello Stato italiano la questione di fondo è questa. Tutto il resto viene di conseguenza.
Con la riforma costituzionale approvata dalla Camera in forma definitiva lo scorso 16 aprile 2016 - che il prossimo 4 dicembre verrà sottoposta a referendum popolare - il governo Renzi ha scelto e giocato con decisione, pur cercando di non farlo capire, la carta della concentrazione del potere.
Il nome ufficiale del provvedimento “legge costituzionale recante disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” dice tanto cose ma ne nasconde appunto la sostanza. E questa sostanza consiste nel ritorno, seppur in modo ovviamente aggiornato, al centralismo del vecchio Stato liberale post-unitario, che il fascismo aveva poi rafforzato ulteriormente a modo suo e a suo vantaggio. E’ un processo che la nuova Costituzione repubblicana varata nel 1947 aveva rovesciato, seppur troppo timidamente; e che adesso invece, se passa la riforma Renzi-Boschi, riprenderà a tutta forza.
D’altra parte, ciò è in sintonia con lo statalismo e il centralismo che stanno alla base del progetto politico di Matteo Renzi. Dalla “Buona Scuola” alla soppressione delle Province in quanto enti governati democraticamente, dal programma di accorpamento delle prefetture alla sua politica fiscale, l’attuale governo procede (quando procede) all’insegna della centralizzazione e della riduzione degli spazi di autonomia sociale. Tutto ciò nel convincimento, non confermato dai fatti, che sia quella l’unica possibile via d’uscita dalla crisi.
L’urgenza di una riforma della “macchina” dello Stato è indubbia. Quando, come nel caso del nostro Paese, lo Stato incamera circa la metà del prodotto nazionale lordo, che poi in larga misura spreca, la ricerca, la formazione e lo sviluppo ne vengono strozzati. Non è dunque in ogni caso possibile uscire dalla crisi se non ponendo mano alla riforma delle istituzioni politiche e della pubblica amministrazione. Anche però affrontando la crisi demografica, questione largamente censurata dall’Italia ufficiale ma altrettanto decisiva.
La scelta della concentrazione del potere come unica possibile via di salvezza, elemento-chiave della riforma Renzi-Boschi, è tanto più sorprendente se si considera che la storia recente non solo del nostro ma di tutti gli Stati moderni dimostra che il centralismo è una ricetta sbagliata. La centralizzazione delle decisioni e del controllo o non funziona o è troppo costosa. In entrambi i casi finisce per assorbire risorse in misura tale da bloccare la crescita. Ciò accade immediatamente negli Stati peggio organizzati e amministrati, come il nostro, ma a lungo termine è il traguardo cui sono destinati a giungere anche tutti gli altri.
La spesa pubblica complessiva del nostro Paese è stata nel 2015 di circa 830 miliardi di euro. Le sue voci maggiori sono le seguenti: pensioni e assistenza, 335 miliardi; personale, 165 miliardi; acquisto di beni e servizi, 130 miliardi; interessi sul debito pubblico, 70 miliardi; investimenti, trasferimenti ecc., 64 miliardi. A fronte di una spesa di queste dimensioni spacciare la riduzione del numero dei senatori, l’eliminazione dei loro stipendi e la soppressione del CNEL come un decisivo contributo alla decrescita della spesa pubblica è una cosa semplicemente ridicola.
Quello che innanzitutto importa è che la macchina delle istituzioni sia efficace, efficiente e funzioni bene nel segno della libertà e della democrazia. Solo in tale prospettiva ha senso pensare o meno a una riduzione del numero dei senatori (e perché allora non anche a una riduzione del numero dei deputati?). Fermo restando che i parlamentari non devono essere strapagati e che il Parlamento deve funzionare bene, rispetto alla gigantesca dimensione della nostra spesa pubblica il costo del Parlamento è un bruscolino. E anche l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, CNEL, pur opportuna, è una goccia nel mare. Qualunque serio intervento sulle grandi voci di spesa vale decine di volte la riduzione del numero dei senatori o la chiusura del CNEL.