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CORTE EUROPEA

Ricerca sugli embrioni, divieto legittimo ma...

La Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) respinge il ricorso di una "vedova di Nassiriya" giudicando legittimo il divieto italiano di donare embrioni per la ricerca. Il criterio di giudizio non è però la dignità del figlio ma la libertà della madre. Così un altro giudice potrebbe stabilre anche l'opposto. E anche la nostra Consulta deve ancora pronunciarsi.

Vita e bioetica 28_08_2015
Corte Europea dei Diritti Umani

Nel 2002 la coppia Adele Parrillo e Stefano Rolla ricorrono alla fecondazione artificiale. Rolla era un militare che perse la vita nell’attentato a Nassiriya nel 2003. Morto quest’ultimo la Parrillo non volle procedere all’impianto e dunque gli embrioni già prodotti vennero lasciati in azoto liquido. Dietro spinta dei Radicali (l’avvocato che tutela la Parrillo fa coppia fissa con l’avv. Gallo nel patrocinare cause per i Radicali) la donna però prese la decisione di donare i propri embrioni alla ricerca, ben consapevole che la legge 40 lo vieta espressamente. Insomma la solita strategia radicale di creare un caso giurisprudenziale per eliminare un ulteriore divieto presente nella legge 40. Tutta una faccenda puramente ideologica dato che la ricerca sulle staminali embrionali, ormai vecchia di più di un decennio, non ha portato a nessun risultato clinico.

La donna arriva sino alla nostra Corte Costituzionale e nel frattempo ricorre anche alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nella speranza che giocando su più tavoli il proprio numero fortunato prima o poi uscirà. Ma il numero sul tavolo europeo non è uscito. La Parrillo aveva giocato la solita carta che su questioni di bioetica tutti giocano di fronte ai giudici di Strasburgo: il divieto di sperimentazione sugli embrioni viola l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, articolo che tutela la vita privata dei singoli.

Ma i giudici almeno questa volta non hanno abboccato ed hanno affermato che  il divieto di donare i suoi embrioni alla scienza non è una compressione della sua libertà. Inoltre hanno specificato che, anche ammesso e non concesso che tale donazione fosse legittima, occorreva anche il  permesso del padre, permesso su cui non si ha certezza alcuna. La Parrillo aveva invece sostenuto che quegli embrioni erano di sua proprietà e quindi aveva tutto il diritto di farne ciò che voleva. La Cedu ha ricordato che sugli embrioni non si può vantare nessun diritto di proprietà.

Il nostro ministro per la Salute Beatrice Lorenzin ha esultato dichiarando che la legge 40 ha retto all’urto: la Cedu infatti «ha riconosciuto la ragionevolezza del margine di azione della nostra legge in questo ambito».

Tutti contenti quindi? Possiamo lanciarci in un brindisi con le provette in mano? Non proprio. Intanto pende il ricorso presentato di fronte alla nostra Corte Costituzionale e visti i precedenti che hanno interessato proprio la legge 40 non c’è da stare allegri. In secondo luogo nel fiorire di commenti abbastanza omologati su questa vicenda ci siamo dimenticati dei veri protagonisti: quei nascituri che tutt’ora se ne stanno in una condizione di vita sospesa, esseri umani che ben difficilmente riusciranno a vedere la luce.

Inoltre la decisione della Cedu per paradosso getta più ombre e che luci. In via preliminare potremmo affermare che ormai per sapere se una condotta sia legittima o meno è assolutamente inutile andarsi a spulciare le leggi, ma bisogna bussare alle porte dei tribunali. E questo è un dato assodato da tempo sui temi sensibili. Ma a questo dato se ne aggiunge un altro. Più che il potere giurisprudenziale vale l’arbitrio giurisprudenziale.

Prendiamo ad esempio proprio l’art. 8 della Convenzione che tutela la vita privata. Questo articolo può volere tutto e il contrario di tutto. È stato usato in Europa per aprire le maglie del divieto di aborto (Polonia), per introdurre la fecondazione eterologa (Austria), per spingere l’acceleratore sui “matrimoni” gay ed altro ancora (Italia). Però lo stesso articolo 8 è risultato un’arma spuntata quando la CEDU dichiarò che in Austria il divieto di fivet eterologa non lede nessun diritto umano, né è servito l’altro ieri per frenare alcune spinte centripete sulla sperimentazione a danno degli embrioni. Insomma se la legge ha il pregio di farti sapere prima quali sono le condotte permesse e vietate, con l’arbitrio dei giudici è tutto una roulette. 

Questa riflessione però ha un peso specifico minimo. Infatti deve essere messa in relazione con il vero criterio giuridico che ormai funge da stella polare in tutto il mondo e che guida l’operato di parlamentari e giudici: il mainstream culturale. È su questo metro di misura che nascono diritti e muoiono divieti. Ed è per questo che la legge 194 è rimasta immutata per quasi 40 anni e la legge 40 è defunta dopo nemmeno 10 anni. Perché la prima è consonante con la grammatica del mainstream, la seconda lo è nella sua ratio (non devi tutelare il figlio ma puoi produrlo e manipolarlo) ma non in quei divieti in essa contenuti che quindi i giudici hanno fatto cadere uno dopo l’altro proprio perché dissonanti non solo con il suo Dna ma anche con l’inno alla gioia libertaria che in Europa ormai da tempo si canta su queste materie.

Pare strano ma la stessa sentenza della Cedu non è in contraddizione con questo mainstream. I giudici non hanno infatti detto che gli embrioni non possono essere oggetto di ricerca perché soggetti di diritti, ma perché tale divieto non toglie nulla alla libertà della ricorrente. Insomma non si è andato al nocciolo del problema e la controversia si è risolta facendo leva su un aspetto che è uno degli elementi dominanti dell’ideologia che oggi batte moneta: la libertà individuale.

Quindi i giudici non sono usciti dal paradigma dettato dalla vulgata imperante, ma ne hanno adottato pienamente la sintassi, i suoi stilemi caratterizzanti. Per paradosso la decisione della Cedu non è dunque controcorrente, ma conferma il teorema che non vuole tenere in conto della dignità del figlio prodotto in provetta. Ed è proprio per questo che non ci sarebbe da stupirsi che un domani su un caso simile potrebbe venire da Strasburgo una sentenza di segno opposto perché se il criterio per fondare una decisione giurisprudenziale è la tutela della vita privata e non il rispetto del bambino sempre e comunque, questo criterio è così liquido che potrà riempire qualsivoglia contenitore ideologico. 

È vero: i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi proprio sull’art. 8 invocato dalla ricorrente e su questo dovevano decidere, ma sappiamo bene che le penne dei magistrati molto spesso invocano principi giuridici non presentati dalle parti – è il loro lavoro in fondo – cosa che invece non è accaduta questa volta. Bastava ad esempio sviluppare l’argomentazione articolata intorno all’impossibilità di rivendicare un diritto di proprietà sugli embrioni. Cosa o chi sono questi embrioni? Rispondere a tale domanda avrebbe portato i giudici a scavalcare il recinto del mainstream dogmatico che loro stessi hanno contribuito spesso ad innalzare nel passato.