Ricentriamo Mercury: né icona gay né Maddalena rock
Il film Bohemian Rhapsody: Freddie Mercury non è un testimonial delle rivendicazioni Lgbt, nè una “Maddalena” del rock.
E' stato il film del momento Bohemian Rhapsody, ispirato alla vita del leader dei Queen, Freddie Mercury, nato a Zanzibar nel 1946 e morto di Aids a Londra nel 1991. Oltre agli incassi stellari sono piovuti premi e apprezzamenti da più parti, ultimi in ordine di tempo l'altro giorno i riconoscimenti al Golden Globe. Non stupisce che la pellicola sia il film musicale più visto di sempre, il prodotto è stato lungamente pensato e accuratamente confezionato per sedurre il grande pubblico, tuttavia certi peana sulla qualità lasciano perplessi.
Se togliamo la musica, così trascinante e di impatto da reggere da sola l’intera visione, siamo di fronte a una sceneggiatura povera e banale, che punta a fare del protagonista una sorta di eroe più che a renderne la sua complessità. È vero che non si tratta di un documentario – questo spiega la licenza che è stata presa nel romanzare alcuni passaggi e spostare alcuni eventi sulla linea del tempo – tuttavia colpisce come si sia voluto schiacciare Freddie Mercury su categorie che nella vita reale non gli appartennero.
Due esempi su tutti: il suo rapporto con la famiglia – indiana di origine Parsi – è ridotta al conflitto tra genitori “conservatori” e figlio “progressista”; il tema dell’omosessualità diventa poi una semplice questione di identità finalmente “liberata” e “rivelata”, come vuole oggi il pensiero dominante. La scena madre del film vede il leader dei Queen (interpretato da Rami Malek) dichiarare alla fidanzata – che a quel punto diventa ex - Mary Austin: «Credo di essere bisessuale», con lei che risponde: «No, Freddie, sei gay». Una scena cui segue il timbro di garanzia della lobby Lgbt, born this way, sei nato così, poiché la successiva battuta dell’affranta Mary Austin è: «E non posso nemmeno fartene una colpa!». Quindi Freddie «era gay» ed «era nato così». Semplice, no?
Eppure sappiamo che Freddie Mercury in vita non ha mai voluto essere una bandiera dei movimenti gay. Esagerato e provocatorio sul palco, che abitava come una vera “regina”, teatrale e sfacciato nei video, non amava rilasciare interviste, né parlare della sua vita privata e meno ancora di come vivesse la sua sessualità. Certamente non si preoccupava di nascondere le sue numerosissime relazioni omoerotiche, così come i suoi festini a base di droga e fiumi di alcool nella sua casa divenuta simile a un rave party permanente, ma i movimenti gay non sono riusciti a strappargli, nemmeno al termine della sua vita quando l’Aids lo stava divorando e conviveva da diversi anni con il suo partner Jim Hutton, una sola parola utile alla loro causa. Significativo è anche il fatto che la parte più grande della sua eredità economica Freddie la lascerà a Mary Austin, cui resterà indissolubilmente legato nonostante i suoi numerosi flirt con uomini e la sua relazione con Hutton stesso. Alla Austin Mercury arriverà ad affidare anche le sue ceneri dopo la cremazione, nel timore di una profanazione da parte dei fan e certo che solo lei potesse custodirle e proteggerle.
Ci hanno ininterrottamente tentato post mortem: innanzitutto enfatizzando le sue performance giocate sull’ambiguità e poi andando a spulciare nelle sue canzoni tracce di coming out (e così Bohemian Rhapsody diventa il brano con cui l’artista rinnega la sua parte omosessuale, Don’t stop me now il racconto di un rapporto omoerotico, I want to break free un outing sulla sua reale identità, ecc. Si trovano innumerevoli esegesi di questo tipo nei siti legati al cosiddetto mondo gay).
Eppure in un articolo dell’ottobre scorso Diane Anderson Minshall – una giornalista “sposata” a una donna cosiddetta transgender che oggi si fa chiamare Jakob – scriveva rivolgendosi proprio al mondo Lgbt: «Venticinque anni dopo la sua morte, la biografia di Mercury sembra più rilevante che mai, ossessionati come siamo dall’orientamento sessuale e dall’identità pubblica» e aggiungeva: «Sembra che dopo la sua morte ciascuno voglia appropriarsi di un pezzo di Freddie Mercury».
È vero, tant’è che un desiderio di appropriazione sembra maturare anche nel mondo cattolico. Lo dico pensando all’articolo di Chiara Pajetta sulla Bussola del 22 dicembre e a quello di Davide Prosperi sul Foglio del 5 gennaio. C’era un’invocazione di eternità o una ricerca di Dio nelle canzoni di Freddie Mercury? Indubbiamente sì, ma per amore di verità e di Freddie Mercury non possiamo andare oltre a questo.
Prendere dalla sua sterminata produzione musicale frasi estrapolate da Save Me, In My Defence, Jesus o Somebody To Love come tracce di un’apertura alla grazia o addirittura come l’abbozzo di un percorso di fede è una forzatura. La sua riservatezza non ci permette di sapere cosa provasse. E sempre per amore alla verità non si può minimizzare la carica trasgressiva che il frontman dei Queen portava nelle sue performance e nella sua arte in generale, con l’enorme conseguente influenza che questo ha avuto sullo sdoganamento di certi costumi. Abusivo insomma farne un testimonial delle rivendicazioni Lgbt dunque, ma anche una sorta di “Maddalena” del rock.
Speriamo davvero che abbia incontrato la misericordia di Dio, certamente sono molti i fan che dalla sua morte pregano per lui. Un amico da poco mi ha recentemente raccontato che da ragazzino, mentre si trovava Basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, aveva ottenuto l’indulgenza plenaria per l’artista che tanto amava, Freddie Mercury, appunto. Questo è il gesto più grande di verità e carità che un cattolico può fare di fronte a una vita come la sua.
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