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MOSTRA A MILANO

Resurrectio Christi, in scena il Rinascimento dell’arte

Il pittore Agostino Arrivabene propone il tema della Risurrezione di Cristo e lo mette in scena alla Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei, a Milano (fino al 18 ottobre). Le sue immagini testimoniano la profondità di un percorso esistenziale-artistico e richiamano alla mente le parole di san Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti. La Nuova Bussola lo ha intervistato

Cultura 06_10_2020

Tra senso del peccato e aspirazione alla Redenzione, fascino della Terra e desiderio di Cielo il pittore Agostino Arrivabene (1967) propone il tema Resurrectio, partendo dalla certezza di quel fatto che ha cambiato la storia dell’umanità e che continua a cambiarla, nell’hic et nunc. Un fatto del passato che riaccade nella vita di ciascuno di noi quando incontra il Cristo vivente e decide di seguirlo, come Saulo sulla via di Damasco. E allora cambia il suo nome, e con quello anche il suo destino: non più Saulo, persecutore dei cristiani, ma Paolo, Apostolo delle genti. L’incontro è un nuovo battesimo.  

Nella mostra di Arrivabene, in scena nello splendido scenario della GASC (la Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei) in Villa Clerici a Milano, aperta fino al 18 ottobre*, si concretizza l’augurio che san Giovanni Paolo II porgeva a tutti gli artisti nella stupenda lettera a loro dedicata nel 1999: «I vostri molteplici sentieri, artisti del mondo, possano condurre tutti a quell’Oceano di bellezza dove lo stupore si fa ammirazione, ebbrezza, indicibile gioia. Vi orienti e ispiri il mistero del Cristo risorto».

I dipinti della mostra aprono una finestra su quell’istante del tempo passato che ha coinvolto tutta la storia dell’umanità e continua a coinvolgere anche il presente: l’eternità entra nella storia, si fa lievito e poi pane spezzato nell’Eucarestia (il trittico Resurrectio Christi), rimane impressa nella Sindone (la grande tela dell’Anastasis), compagnia per l’umanità anche dopo la resurrezione (come nel Gesù di Emmaus).

Di fronte allo stupore della Resurrezione la ragione umana prova a capire, ma si deve fermare sulla soglia del mistero, a bocca aperta. Così come si rimane a bocca aperta dinanzi alla perizia pittorica, alla capacità sperimentale che riesuma tecniche del passato, richiama antichi artisti, li fa rivivere, dialoga con loro come dei maestri vivi e contemporanei.

Si può davvero dire, senza esagerare, che il Rinascimento è ancora qui tra noi: una resurrezione dei grandi della storia dell’arte che hanno accompagnato la pittura di Arrivabene, su tutti Leonardo da Vinci e Mantegna, che brillano come riferimenti costanti nelle opere in mostra. E allora in Resurrectio s’incarna anche la resurrezione del Rinascimento o di una tecnica come l’encausto di cui ci racconta Plinio il Vecchio nella Naturalis historia con cui si era cimentato anche il grande Leonardo nella battaglia di Anghiari, non raggiungendo però gli esiti sperati.

Parlando con l’artista Agostino Arrivabene si coglie la profondità del percorso esistenziale e religioso e la ricerca artistica in un dialogo costante con la tradizione. La Nuova Bussola lo ha intervistato.

Come si arriva a questa mostra?
È un cammino lungo che risale addirittura al 2010, quando alla Biennale di Venezia mi venne proposto di reinterpretare il Cristo morto di Mantegna e il lavoro di Alessandra Borsetti Venier e di Carlo Fabre che nel 1985 avevano presentato un progetto multimediale sul Cristo morto. Desideravo andare oltre la morte e raffigurare il momento iniziale, l’istante della Resurrezione, il miracolo. Ho immaginato col cuore e con la mente. L’elemento fondamentale era la luce. Ho studiato le teorie della luce di Isaac Newton e quanto gli studiosi della Sindone hanno scritto sull’esplosione di energia che è avvenuta nel sepolcro. Poi ho rappresentato quel momento.

Tu dialoghi con opere già installate nelle sale della GASC.
Ho cercato di realizzare un percorso con le opere preesistenti già installate alla GASC, cercando di rispettarle. Mi sono confrontato con il curatore della mostra Luigi Codemo.

Nella sala dove si trova l’Ultima Cena del ceramista faentino Angelo Biancini ho posto opere dedicate all’Eucarestia come offerta e dono di sé. Quindi, ho cercato di sottolineare l’esperienza dell’uomo che si dona all’altro. Nell’opera La pietra scartata, il vuoto del catino è, ad un tempo, il vuoto del sepolcro di Cristo, del calice dell’Ultima Cena, del catino utilizzato per la lavanda dei piedi: è simbolo del bisogno dell’uomo; l’uomo deve essere educato a sentire la mancanza che sente nel cuore, la sua ferita, e deve sorprendersi di ciò che solo può riempire quella mancanza.

Possiamo parlare di un approdo religioso della tua pittura? In fondo la tua arte è sempre stata religiosa, piena di domanda, e, nel contempo, certa della verità.
Potrei parlare di tre tappe fondamentali in questo percorso. Nel 2008 c’è stata la prima chiamata ad una conversione totale. Ho visto la mia vita in una condizione precaria. Ho sentito molto forte la mia fragilità che aveva bisogno di un aiuto. Per questo mi sono recato a Lourdes in pellegrinaggio. La Vergine Maria mi ha aiutato molto. Avevo bisogno di portare a Maria quel grumo di dolore che avevo nel cuore e di affidarlo a Lei. Questo fatto mi ha cambiato molto. Conservo ancora tanta devozione per la Vergine Maria.

Nel 2018 sono andato a Roma per le scenografie e i costumi dell’opera Sansone e Dalila. Sono andato a rivedere tra l’altro le Stanza di Raffaello e in particolare la Scuola di Atene. Entrato nella Cappella Sistina, ho guardato la volta e poi il Giudizio universale, il dramma delle anime che salgono e scendono nell’affresco come in un vortice. Ho avvertito un sentimento che entrava in me, ho incominciato a tremare e a piangere come un bambino e sono uscito. Era un pianto traboccante di gioia. Un pianto estatico, come per un innamoramento, come se l’amore fosse entrato dentro di me. Ero sconvolto.

Nello stesso anno il canto XI del Purgatorio è stato per me una rivelazione. Dante parla della superbia e degli artisti. Ho scoperto che esiste un’altra prospettiva dell’artista che non si ferma all’appagamento di sé.

Scriveva san Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti: «L’artista vive una particolare relazione con la bellezza. In un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore col dono del “talento artistico”». Come vivi questo rapporto con la bellezza e, più in particolare, la vocazione artistica?
L’immagine che io raffiguro è molto vicina a quella degli iconografi ortodossi. Non è un’immagine estetica, ma immagine dell’invisibile. L’iconografo cerca di avvicinarsi all’invisibile che si mostra al mondo visibile. L’arte diviene così occasione per svelare il mistero. Avvicina a Dio, è una scorciatoia tra l’essere umano e Dio. Mi incanto a vedere la bellezza, che è una rivelazione.

Nella mostra è impressionante il modo in cui s’incarnano le parole di san Giovanni Paolo II: «L’artista utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell’uomo in quanto immagine di Dio» (Lettera agli artisti, 1). Il visitatore vede in opera ciò anche nella scelta dei materiali su cui dipingi.
In questi anni ho indagato e studiato molto le immagini acheropite, quelle che scaturiscono dalla natura stessa, immagini che si creano nel legno, nei minerali, nei fossili. La tavola del cedro del Libano è un’opera sorprendente, perché il nodo centrale della sezione della pianta è divenuto il cuore di Cristo. Mentre realizzavo l’opera si è creata una frattura nella tavola che giunge fino al cuore. Ho spesso utilizzato materiali di scarto, come una tavola antica di una vecchia cascina con la quale ho realizzato La pietra scartata. Viviamo in un momento storico in cui il senso religioso viene scartato. L’uomo oggi non ascolta più la voce del suo cuore. Oggi noi creiamo scarti, mentre nello scarto che noi siamo c’è l’occasione di diventare una chiave di volta.

Quali sono le tue epoche preferite dal punto di vista artistico?
L’età di Pericle, la Grecia alessandrina, il Rinascimento italiano di cui amo in particolare la Firenze di fine Quattrocento e la Roma dei primi decenni del Cinquecento.

Torniamo allora indietro alla Roma papale di inizio Cinquecento. Con quale papa avresti voluto lavorare? A quale progetto?
Senz’altro con papa Leone X, non con papa Giulio II, un pontefice troppo impulsivo, che cambiava troppo spesso idea e che ha fatto soffrire tanto Michelangelo. Avrei desiderato lavorare alla Stanza della Segnatura affrescata da Raffaello.

Ritorniamo ora alla realtà. Cos’hai in cantiere? Nel 2021 ricorre il settecentesimo anniversario della morte di Dante. Che cosa stai realizzando?
Nei prossimi mesi lavorerò soltanto all’illustrazione delle tre cantiche della Divina Commedia per un progetto che verrà pubblicato verso la fine dell’anno prossimo. Il Dante che ho incontrato è un nuovo Orfeo, un Eracle, che ha indagato l’interiorità dell’uomo. In Dante vedo un padre che mi accompagna come Virgilio ha accompagnato Dante nel viaggio dell’aldilà. Nei dipinti ho deciso di non rappresentare mai il poeta, come invece accade nelle rappresentazioni artistiche della Commedia da settecento anni. La mia è una scelta consapevole, una provocazione, un richiamo: ognuno di noi è Dante che deve fare il viaggio della vita per la salvezza. Desidero che ciascuno di fronte ai dipinti che realizzerò per la Commedia possa immaginare se stesso nel viaggio visto attraverso gli occhi del poeta.

Dove ti spingerai con le tue tecniche?
Vorrei cimentarmi nell’affresco, tecnica che ancora non ho sperimentato. È una tecnica che mette alla prova le capacità dell’artista che deve lavorare in un tempo brevissimo all’immagine da realizzare. Come indole mi sento più vicino a Leonardo da Vinci che non amava l’affresco.

Un sogno che vorresti realizzare dal punto di vista artistico?
Mi piacerebbe affrescare la volta di una chiesa, come Michelangelo nella Cappella Sistina.

*Per informazioni su come visitare la mostra, vedi il sito di Villa Clerici