Restare cattolici (e vivi) ai tempi dei Soviet
Niente Natale o feste religiose, matrimoni religiosi che costavano l'emarginazione. E migliaia di deportazioni. Così il regime sovietico cercò di spezzare un popolo, quello lituano. Ottenendo, al contrario, il rafforzamento della fede. Parla Kotryna Vilkaite, referente in Italia di Missione Siberia.
Siamo pronti a celebrare il Natale in un’atmosfera abbastanza oppressiva, in cui persino i presepi danno scandalo e sono oggetto di dibattito nelle scuole pubbliche, perché potrebbero “offendere” scolari di altre religioni. Meglio dare una rinfrescata alla memoria: giusto per avere un parametro di riferimento è bene sentire chi ha vissuto sotto un regime che imponeva l’ateismo di Stato a tutti e con la forza.
Kotryna Vilkaite, lituana, nipote di uno degli eroi della resistenza anti-sovietica, lavora assiduamente per far riemergere la memoria dell’ex impero rosso. Attualmente è impegnata nella Missione Siberia, con un gruppo di volontari che si reca periodicamente nelle più remote regioni siberiane, alla ricerca dei cimiteri dei lituani che vi erano stati deportati. Ha vissuto tutta la prima parte della sua esistenza nell’Unione Sovietica, in quel gigantesco esperimento sociale, durato 70 anni, che mirava a creare un uomo nuovo eliminando memorie, tradizioni, religione e qualunque senso di appartenenza alla propria nazionalità. “Purtroppo credo che la maggioranza assoluta degli italiani non abbia idea di cosa fosse il comunismo applicato realmente, e soprattutto il ricordo che qui si ha dell’Unione Sovietica è ben diverso dalla realtà che io ho vissuto personalmente – ci spiega la Vilkaite – Si ha ancora l’idea, per esempio, che il comunismo almeno creasse uguaglianza. L’unica uguaglianza che ho conosciuto era quella nel terrore: tutti erano ugualmente spaventati, ugualmente sottomessi, ugualmente privati del diritto di festeggiare ogni festività religiosa”.
Per quanto riguarda il Natale, ci ricorda Kotryna: “Ogni volta che arrivava il 24 dicembre, mia mamma e mia nonna lavoravano fino a tardissima ora, perché il regime ha sempre effettuato dei controlli extra. Oppure anche carichi di lavoro straordinari, assegnati apposta per non far tornare a casa la gente in tempo per la veglia natalizia”. Prima dell’indipendenza lituana, nel 1991, “eravamo liberi di celebrarlo, almeno quando ero bambina negli anni ’80. Ma era già un periodo di parziale liberalizzazione. Prima era impossibile, illegale. Lo si doveva festeggiare solo a tarda notte, nelle cantine”. Il sentimento religioso, comunque, non è morto dopo decenni di ateismo di Stato? “Potrei dire che è diventato ancora più forte. Vietare la religione ha fatto sì che la gente comune avesse una fede ancora più grande. La religione cattolica ha sempre svolto un ruolo molto importante nelle famiglie”. Nonostante messa e sacramenti fossero vietati. “Sì, i miei genitori, per esempio, erano studenti di medicina e tenevano moltissimo a celebrare il loro matrimonio in chiesa, anche se rischiavano di essere espulsi dall’università. Hanno percorso 140 km da Kaunas, la mia città, per sposarsi di nascosto in un piccolo paese. Questo perché ci tenevano veramente, non ritenevano sufficiente un rito civile in comune, come permesso dalla legge, ma volevano un matrimonio religioso, nonostante il rischio. Perché era vissuto come l’unico matrimonio vero, anche se non si conosceva il prete ed entrare in una chiesa era, in sé, un atto sovversivo”.
Per ricordare la memoria dei circa 3-400mila lituani (il numero preciso è tuttora sconosciuto) deportati in Siberia, soprattutto negli anni di Stalin (la Lituania venne occupata dall’Urss nel 1940, poi dalla Germania nazista dal 1941 al 1944 e poi ancora dall’Urss nel 1944), Kotryna Vilkaite partecipa alle spedizioni di Missione Siberia, di cui è referente in Italia. “Quando torniamo in patria, facciamo poi il giro delle scuole per raccontare le nostre esperienze, quando possibile anche all’estero, presso le ambasciate. L’impatto dei nostri racconti è fortissimo, fra gli studenti non vola una mosca, nemmeno nelle scuole dove di solito la disciplina è molto bassa. Certo, attira anche l’aspetto avventuroso di queste spedizioni, perché la Siberia è ancora una terra da esplorare, soprattutto quando ci si allontana dalle grandi città. Nella provincia di Tyumen, ad esempio, abbiamo trovato villaggi che sembravano rimasti fermi nel tempo, congelati mezzo secolo fa, con case cadenti e in alcuni casi senza acqua corrente: si deve andare ad attingerla in centro al paese”. In questo scenario “alieno” la memoria delle deportazioni è comunque tutt’altro che morta. Ma sia in un senso che nell’altro: “Abbiamo incontrato, ad esempio, un lituano ormai naturalizzato russo da decenni che piange ancora ad ogni anniversario della morte di Stalin. I cervelli sono stati lavati al punto di amare i propri persecutori. Un funzionario di un’amministrazione locale ci ha ricordato, provocatoriamente, che, fra nazisti e sovietici, noi preferivamo i nazisti. Gli ho risposto chiaro e tondo che: no, non preferivamo nessuno, erano entrambi invasori”.
Nostalgia sovietica in alcuni, dunque, ma anche rispetto per le vittime, in altri: “Non vedo un gesto di disprezzo religioso in quelle croci dei cimiteri lituani che vengono divelte e fuse per riciclare il metallo. E’ la povertà che ti fa fare quelle cose: ti fai il segno della croce, magari, prima di fondere una croce, ma pensando che così puoi dar da mangiare ai tuoi figli. Il proprietario di un terreno consacrato, proprio dove sorge un cimitero di lituani deportati, voleva aprirvi un cantiere per costruire una nuova schiera di condomini. Ma è stata la gente del posto ad opporsi. Hanno detto chiaro e tondo che non sarebbero mai andati ad abitare nelle nuove case, pur essendo rimaste pochissime tracce dell’esistenza di quel vecchio cimitero di deportati. Quel campo santo lo abbiamo recintato con circa 900 paletti di legno. Non ci vuole nulla per buttarlo giù, ma siamo sicuri che rimarrà”.
Di quasi mezzo milione di deportati, solo 50mila sono tornati a casa. Gli altri sono morti durante la deportazione, o nelle regioni in cui erano stati trasferiti, o si sono stabiliti in Siberia. “Ci voleva coraggio anche per tornare in Lituania, dopo 30 anni o più di vita in Siberia, perché il regime riusciva a metterci gli uni contro gli altri. ‘Ci sarà un motivo per cui ti hanno deportato’ era il luogo comune che li accoglieva al ritorno in patria. ‘Ci sarà un motivo per cui non ti hanno deportato’ dicevano gli anticomunisti. Sul Mar di Laptev, esposto ai venti artici, le percentuali di sopravvivenza dei deportati erano minime. Nella repubblica di Komy, dove è stata deportata mia nonna, si moriva letteralmente di fame, la mia famiglia è sopravvissuta per miracolo”.