Repressione in Turchia Ue, Onu e Nato lasciano fare
La repressione di Erdogan in Turchia diventa sempre più brutale, con 50mila fra arresti, sospensioni e licenziamento per sospetta partecipazione al fallito colpo di Stato. Può essere reintrodotta la pena di morte, l'islamizzazione accelera e i cristiani sono nel mirino. Di fronte a questa tragedia, Nato, Ue e Onu restano in silenzio e lasciano fare.
I militari e i civili epurati da Erdogan in Turchia hanno superato i 50mila. E’ già la purga più massiccia della storia recente del paese. Il grosso delle vittime subisce “solo” il licenziamento o la sospensione dal suo posto di lavoro. Ma le immagini sul trattamento riservato ai prigionieri, soprattutto i militari, sono terribili. Hanno fatto il giro del mondo le foto dei soldati denudati e ammassati nelle stalle, come bestie. Quelli frustati dai militanti pro-Erdogan. Quelli linciati dalla folla. Il successo del colpo di Stato militare avrebbe probabilmente causato meno violenza e meno repressione.
Le vittime più numerose dei licenziamenti massicci e arbitrari sono soprattutto insegnanti e dipendenti del ministero dell’Educazione: 36mila (21mila insegnanti e 15mila funzionari) sono stati sospesi o licenziati, praticamente tutti coloro che sono sospettati di contatti con Fethullah Gulen, il politologo e predicatore islamico in esilio, considerato da Erdogan la “mente” del fallito golpe. Si tratta anche, però, di una vera rivoluzione culturale. Spazzata via la vecchia classe di insegnanti, musulmana moderata e laica, può sorgerne una nuova, molto più radicale. I cristiani sono più in pericolo che mai: a Trebisonda è stata attaccata la chiesa in cui fu ucciso Don Santoro nel 2006 e una chiesa protestante è stata vandalizzata a Malatya. Il problema è anche che, di fronte a questa deriva totalitaria, le istituzioni che dovrebbero difendere i diritti umani, sono incredibilmente passive.
E’ silente la Nato, organizzazione di cui la Turchia è membro a tutti gli effetti. “Sicuramente siamo d’accordo che gli autori del golpe siano processati – diceva John Kerry, segretario di Stato Usa lunedì – Ma stiamo attenti affinché non si vada oltre questo limite, oltre che sottolineare l’importanza del rispetto delle regole democratiche”. Queste parole del ministro degli esteri della prima potenza militare dell’alleanza avevano portato alcuni osservatori a ipotizzare un’espulsione di Ankara dall’Alleanza Atlantica. Ma nonostante queste voci, il segretario generale Jens Stoltenberg ha ribadito che Ankara sia “un valido alleato” e ha espresso la “solidarietà dell’Alleanza con la Turchia in questo momento delicato”. Solo alla fine del comunicato possiamo leggere una certa preoccupazione sul rispetto dei diritti umani e un vago invito a non violarli. Non ci sono state successive prese di posizione e probabilmente non ce ne saranno. La Nato, nel corso degli ultimi 64 anni, ha sopportato pazientemente tutti i colpi di Stato turchi (almeno tre, più un quarto “bianco”) e le dure repressioni che ne sono seguite. In tempi di guerra fredda contro l'Urss, la Turchia era essenziale. Ma oggi? La guerra fredda è finita e anche il confronto con la Russia di Putin si svolge con altri metodi, con il soft power più che con l’hard power, sulla capacità di attrarre i neutrali più che su quella di minacciare gli avversari. Proprio in questo tipo di guerra, dove l’immagine conta più dell’effettiva forza militare, una Turchia che scivola rapidamente verso il totalitarismo batte di colpo tutti i motivi di protesta nei confronti della Russia. Fino a quando la Nato potrà permetterselo?
L’altra istituzione che resta in silenzio è l’Unione Europea. A marzo aveva concluso con la Turchia l’accordo per i rifugiati dalla Siria, tre milioni dei quali sono stipati nei campi dell’Anatolia. La situazione attuale non permette più di rispettare i patti, che includevano anche una liberalizzazione dei visti dei turchi che volevano viaggiare in Europa e l’impegno (più sulla carta che concreto) a riprendere il negoziato per l’ingresso nella Turchia in Ue. Nei drammatici giorni di contro-golpe, Federica Mogherini, l’alta rappresentante della Pesc, ha dichiarato che le speranze per un ingresso nell’Ue finirebbero in caso di reintroduzione della pena di morte in Turchia. Ma se la pena capitale è la “linea rossa” da non passare, cosa dice degli arresti arbitrari, dei licenziamenti di massa dei “golpisti” o presunti tali, dei linciaggi in pubblico, del trattamento brutale dei prigionieri? Johannes Hahn, commissario all’Allargamento, ha espresso in pubblico, al Parlamento Europeo, il dubbio che in Turchia ci fosse già una lista di persone da arrestare, anche prima del golpe. Dubbio fondato, considerato che ne sono finiti in carcere ben 6000 solo nel primo giorno al fallito colpo di Stato. La cancelliera Merkel, solo ieri e tramite il suo portavoce, ha contestato i metodi adottati da Erdogan: "Quasi quotidianamente vengono introdotte nuove misure che sono contrarie a un modus operandi rispettoso dello stato di diritto e che non tengono conto del necessario principio della proporzionalità". All’atto pratico, però, gli accordi di Bruxelles fra Ue e Turchia restano intonsi. Dunque anche la prospettiva di una liberalizzazione dei visti, che è rimandata (probabilmente oltre il 2016), ma non esclusa. E di una seconda tranche di aiuti ad Ankara pari a un totale di 6 miliardi di nostri euro.
Quanto all’Onu, i drammatici fatti del fallito golpe e contro-golpe non hanno provocato alcuna reazione: nessuna risoluzione, nessuna sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza, nessuna proposta di inchiesta. Come se fosse assolutamente normale che in un paese si effettuino arresti e licenziamenti di massa sulla base del legittimo sospetto. L’unica reazione è la protesta del commissario per i diritti umani, il giordano Zeid Ra'ad Al Hussein, che sollecita Ankara a rispettare lo Stato di diritto e i principi della protezione dei diritti umani. Questa apatia, per quanto riguarda l’Onu, non è una novità, semmai è una tragica conferma.