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IL CASO

Report: le ragioni del Tar non ledono il giornalismo

Sul caso Report e sentenza Tar si è scatenata una tempesta in un bicchiere d’acqua. Perché non si tratta di violazione del segreto professionale dei giornalisti, ma solo di applicazione del diritto d’accesso agli atti di un ente pubblico, la Rai, che in quanto gestore di un pubblico servizio ha precisi obblighi di trasparenza. Un accesso agli atti non significa rivelazione delle fonti. 

Attualità 22_06_2021

Il segreto professionale dei giornalisti è un cardine imprescindibile del loro lavoro, tutela il giornalismo d’inchiesta e consente ai cittadini di essere correttamente informati su fatti di interesse pubblico che non potrebbero mai essere scoperti attraverso fonti ufficiali e che invece traggono ispirazione da fonti confidenziali. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte difeso il diritto dei giornalisti di non rivelare le proprie fonti confidenziali, ma tutto questo non c’entra più di tanto con la vicenda che riguarda Report e che da due giorni ha scatenato feroci polemiche sulla libertà di stampa nel nostro Paese.

La sentenza con cui il Tar del Lazio ha autorizzato l’accesso agli atti per una puntata di Report, accesso negato dalla Rai, è stata letta come un vulnus all’autonomia dei giornalisti ma in realtà non lo è. Il vecchio vizio, tutto italiano, di commentare decisioni non lette o lette superficialmente, ha prodotto una polemica fuorviante che non fa onore a chi l’ha scatenata.

La verità è nella dichiarazione diffusa ieri pomeriggio proprio dai giudici amministrativi, costretti a chiarire la portata della loro decisione. In una nota l’Anma, Associazione nazionale magistrati amministrativi sottolinea che «la quasi totalità dei commenti fortemente critici apparsi sulla stampa non rispecchiano affatto il contenuto della sentenza. Nella stessa infatti viene riconosciuto il diritto del ricorrente a prendere visione solo dei documenti che Enti esclusivamente pubblici hanno formalmente trasmesso alla Rai, escludendo dunque qualsiasi fonte privata e a maggior ragione di carattere confidenziale. Ciò senza contare che, in alcuni casi - sottolineano le toghe amministrative - si è addirittura arrivati a riferire e ad accostare in modo suggestivo, e inaccettabile ove il fine sia minarne la credibilità, vicende passate relative a un membro del collegio, del tutto slegate dalla decisione assunta peraltro in forma collegiale, e quindi di nessun interesse se non meramente strumentale. Come magistrati amministrativi auspichiamo che i prossimi articoli e servizi stampa diano adeguato ricorso a tali precisazioni».

Il senso è: una tempesta in un bicchiere d’acqua. Perché, come detto, non si tratta di violazione del segreto professionale dei giornalisti ma solo di applicazione del diritto d’accesso agli atti di un ente pubblico, la Rai, che in quanto gestore di un pubblico servizio ha precisi obblighi di trasparenza. E il ricorrente, l’avvocato Andrea Mascetti, vicino alla Lega e chiamato in causa nell’inchiesta di Report, ha chiesto di visionare solo le carte su cui l’inchiesta si basava, non le fonti riservate del giornalista che ha confezionato il servizio.

L’avvocato Jacopo Pensa, difensore del Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana in altre inchieste, è intervenuto con una nota: «L'avv. Mascetti lamentava e lamenta di aver subito un grave attacco personale in una puntata di Report che lo descriveva come professionista al centro di opachi intrecci con pubbliche amministrazioni ed enti locali dai quali riceveva incarichi e consulenze; il tutto connotato da espressioni dal significato ovviamente negativo. In tale contesto la tutela della fonte è un richiamo quanto meno pretestuoso giacché il giornalista non eccepisce la segretezza di un informatore o di un delatore o di un meccanismo che gli avrebbe consentito la divulgazione e la rivelazione di fatti altrimenti destinati a rimanere segreti. Nel caso di Report il riferimento è assodato e dichiarato: è la pubblica amministrazione per la quale il professionista ha svolto le sue prestazioni. Egli chiede dunque di conoscere se e quali atti Report abbia ricevuto per un sacrosanto diritto di verificare, tra gli altri, anche il rispetto del canone della verità. Ha diritto di sapere se i suoi ''clienti'' abbiano trasmesso atti contenenti spunti suscettibili di essere interpretati negativamente (ad esempio scambi di favori. Segnalazioni politiche. Conflitto di interesse) o se sia stata la puntata giornalistica a creare ad arte collegamenti sospetti».

Il diritto dell’avvocato Mascetti di accedere agli atti della Rai appare sacrosanto ed è improprio parlare in questo caso di compressione, da parte del Tar, del diritto all’informazione libera. «L’avvocato Mascetti – precisa Pensa - per difendersi dagli attacchi di Report intende esercitare il diritto di verificare se atti pubblici che lo riguardano consentono le illazioni denigratorie di cui si lamenta».

Nonostante questo, Sigrido Ranucci, direttore di Report, e la stessa Rai annunciano il ricorso al Consiglio di Stato per chiedere il ribaltamento della sentenza del Tar del Lazio. E l’Ordine dei giornalisti chiede al giudice amministrativo di appello di accogliere l’istanza di essere in giudizio in quanto soggetto pubblico titolare di un interesse qualificato inerente al rapporto dedotto in giudizio.

Sulla sentenza del caso Report anche la politica si divide. Enrico Letta la ritiene discutibile, mentre Luciano Nobili (Italia Viva) e Massimiliano Capitanio (Lega, segretario della commissione parlamentare di vigilanza Rai) la difendono e chiedono che venga rispettata dalla Rai e da Report.

L’auspicio più ragionevole è che questo braccio di ferro sulla sentenza del Tar possa contribuire a ristabilire i corretti limiti del giornalismo d’inchiesta, soprattutto di quello pagato con i soldi di tutti gli italiani attraverso il canone versato per sostenere la tv pubblica.