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DIREZIONE DEL PD

Renzi non si piega e sfida i dem a congresso

Duro confronto fra la linea del premier Renzi e quella della minoranza del partito su alcune questioni: risultati delle amministrative, Italicum, riforme, doppio ruolo del premier-segretario. Renzi non si piega e sfida la minoranza: «Volete che lasci? Fate un congresso e vincetelo». Nuovi guai per l'Ncd di Alfano.

Politica 05_07_2016
Il premier Matteo Renzi

Da mesi minaccia di dimettersi da presidente del Consiglio e di lasciare la politica  se al referendum di ottobre dovessero prevalere i “No”. Ora si spinge oltre e arriva a preconizzare, in quel caso, non solo la fine del governo, ma anche della legislatura. «Dopo di me il diluvio»,  lascia intendere Matteo Renzi, che sfida ancora una volta la minoranza dem, sia sulla riforma Costituzionale, sia sul doppio incarico (premier e segretario) sia sull’Italicum («Non si cambia, non c’è una maggioranza su un testo alternativo a quello appena entrato in vigore», anche se il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini apre a modifiche della legge elettorale).

Nella riunione di ieri della direzione del partito, l’ex sindaco di Firenze ha respinto con nettezza le critiche rivoltegli dalla minoranza dem all’indomani del flop delle amministrative di giugno, dovuto, secondo lui, non già al fatto che il presidente del Consiglio mantenga anche la carica di segretario del primo partito («Succede in tutte le democrazie occidentali ed è previsto dallo statuto Pd», ha ricordato), bensì a difficoltà locali e territoriali («Fate iniziative, andate sul territorio e state in mezzo alla gente oppure non avete futuro», ha tuonato ai suoi).

Il Pd rimane, dunque, un partito diviso, segnato dalle cocenti sconfitte in alcune città come Roma e Torino, e appeso al filo della leadership renziana. Il premier non indietreggia di un millimetro dalla linea solita, che è quella di una sorta di ultimatum rispetto al referendum. «Quel voto», ha ribadito ieri in direzione, «non è importante per i destini di qualcuno, ma per il futuro della credibilità della classe politica italiana. É una consultazione con la quale se vince il “Sì” si chiude la stagione delle riforme e inizia il futuro del Paese. Il referendum non riguarda me, ma riguarda il Paese. Se passa, la classe politica ha dato un segnale, la più bella pagina di autoriforma che una classe politica abbia fatto in Occidente».

Ma dalla minoranza dem non gli sono arrivati segnali così tanto distensivi. Già in mattinata l’ex segretario Pierluigi Bersani, prima dell’apertura dei lavori della direzione, aveva raccomandato umiltà al premier-segretario, paventando il rischio che il partito, senza una correzione di rotta, potesse «andare a sbattere». Lui, per tutta risposta, nel pomeriggio di ieri, non ha fatto alcuna promessa ai suoi oppositori interni, sfidandoli anzi a vincere il prossimo congresso, se vogliono mandarlo a casa. Ma le fibrillazioni in casa Pd si intersecano inscindibilmente con le vicende governative. 

Area Popolare è sempre più spaccata tra chi vorrebbe continuare ad appoggiare l’esecutivo e chi, invece, preferirebbe uscire dal governo e preparare un’alternativa a Renzi in vista delle politiche del 2018. Peraltro, se vincessero i “No” al referendum di ottobre (ammesso che si svolga in ottobre e che non slitti), non resterebbero che due alternative: lo scioglimento anticipato della legislatura oppure la formazione di un esecutivo che faccia una nuova legge elettorale per il Senato e che promuova il varo di alcune leggi fondamentali come quella di stabilità, prima di tornare dagli elettori.

I nuovi guai giudiziari per alcuni esponenti Ncd non fanno altro che indebolire il potere di condizionamento di Alfano sull’esecutivo, ma c’è comunque da dire che, ora come ora, se il ministro dell’Interno decidesse di togliere l’appoggio all’esecutivo di cui fa parte, dimettendosi, sarebbe difficile trovare trenta voti sostitutivi in Senato. Renzi deve ora gestire sia i malumori interni al suo partito, con alcuni parlamentari che minacciano di non votare più la fiducia su singoli provvedimenti governativi, sia quelli dei verdiniani, che sono perfino arrivati a mettere in discussione la leadership di Verdini. Se a questi due fronti aperti se ne aggiungesse un altro, quello degli alfaniani, diventerebbe davvero difficile per il governo sopravvivere. 

Nei giorni scorsi era stato Roberto Formigoni a indicare la strada del disimpegno di Ncd dal governo. Ieri l’ex ministro Maurizio Sacconi, in una lettera inviata alla nostra testata, ha auspicato un bipolarismo sul modello milanese (vedi recente sfida tra Parisi e Sala) tra socialdemocratici e liberalpopolari, lasciando intendere di credere ancora in una ricomposizione del centrodestra tradizionale. Lo spartiacque appare, però,  il referendum. Fino a quella consultazione, ben difficilmente Ncd troverà il coraggio di abbandonare Renzi. Dopo, in caso di vittoria dei “No” (che negli attuali sondaggi vengono dati in vantaggio per 54 a 46 sui “si”), potrebbe aprirsi una fase nuova, con una scomposizione degli attuali poli e una ricomposizione del quadro politico su nuove basi.