Renzi, la Manovra e il funerale della democrazia
La pittoresca vicenda della “legge di stabilità”: voltando le spalle al Parlamento Renzi e Padoan stanno negoziando i contenuti con la Commissione, il governo non eletto dell’UE, riservandosi di ripresentarsi alle Camere con un provvedimento che deputati e senatori verrebbero invitati ad approvare senza discutere.
C’è sorprendentemente qualcosa di pittoresco nella vicenda della “legge di stabilità” per il 2017 oggi alla ribalta della cronaca politica. Tenuto conto della materia l’aggettivo potrebbe sembrare improprio, ma ancora una volta la realtà va oltre l’immaginazione.
In via preliminare va poi osservato che siamo ormai al funerale della democrazia. Quello di votare la spesa pubblica fu il primo potere riconosciuto ai Parlamenti; al potere legislativo essi giunsero soltanto in un secondo tempo. Il voto sul bilancio dello Stato italiano è una fondamentale competenza del Parlamento italiano, eletto dal popolo a suffragio universale. Fa perciò una grande (e non buona) impressione vedere il nostro governo discutere le sue spese con la Commissione europea prima che con il Parlamento di Roma.
Voltando le spalle al Parlamento Renzi e Padoan stanno negoziando in via preliminare i contenuti della legge di stabilità 2017 con la Commissione, il governo non eletto dell’Unione Europea, riservandosi evidentemente di ripresentarsi poi a Roma alle Camere con un provvedimento che deputati e senatori verrebbero quindi invitati ad approvare senza discutere. Non soltanto ciò viola la Costituzione, ma anche indebolisce il governo nel suo confronto con Bruxelles.
Ben diverso sarebbe stato se Renzi e Padoan avessero presentato una legge già forte dell’approvazione del Parlamento. Non l’hanno fatto, e forse nemmeno avrebbero potuto farlo perché il testo del provvedimento non c’è, o comunque quando il negoziato ha avuto inizio non era ancora disponibile. La discussione non è iniziata su un documento preciso bensì sulla base di appunti, di dichiarazioni verbali, di “slides” e cose del genere. Il grande obiettivo è quello di farsi approvare un deficit pari al 2,3 per cento del Pil, maggiore dello 0,1 per cento a quello del 2,2 già concordato in settembre.
Da quel che trapela, ma trapela molto, il tono che il nostro governo ha dato alla trattativa è un po’ da venditori ambulanti di tappeti. Per avere il via libera a quell’ulteriore aumento del suo deficit il nostro governo brandisce ad esempio l’avvio di un piano nazionale di salvaguardia anti-sismica: una decisione che è difficile spacciare per un’urgenza imprevedibile considerato che la sismicità di un’ampia fetta del territorio italiano è cosa nota da decine di secoli. In quanto poi alle nuove entrate, troppe o sono “una tantum” e sono di incerte dimensioni (come tipicamente la mitica “lotta all’evasione fiscale” o il presunto rientro in massa di capitali all’estero).
Frattanto Renzi prende tempo spostando il dibattito in altre direzioni. Giovedì scorso incontrando a Bruxelles gli eurodeputati del Pd ha ad esempio annunciato che sotto la sua guida l’Italia si mobiliterà per un “profondo cambio di direzione” dell’Europa ponendosi in tale prospettiva alla testa di un rinnovato fronte progressista.
Messi con le spalle al muro sulla questione della legge di stabilità 2017 Renzi e Padoan cambiano insomma tavolo cercando scampo con affermazioni del tipo “L'Europa deve scegliere se abbandonare la strada dell'austerity e degli "zerovirgola" e stare con l'Italia, oppure continuare a chinare la testa verso i paesi come l'Ungheria che ignorano le regole sui migranti”. Che cosa c’entra la politica dell’Ungheria verso i migranti con il nostro deficit? Non c’entra niente. E’ solo un lancio di fumogeni in attesa della lettera di censura per deficit eccessivo che la Commissione Europea manderà a Roma in queste ore. Altri 5 o 6 Stati membri riceveranno peraltro lettere analoghe: Belgio, Spagna, Portogallo, Estonia e forse Francia e Paesi Bassi.
In un’intervista a la Repubblica il ministro Padoan rincorre il premier affermando pure lui che l'Europa deve scegliere da che parte stare" ovvero "accettare il fatto che il nostro deficit passi dal 2 al 2,3% per far fronte all'emergenza dei migranti, oppure scegliere la strada ungherese, quella che ai migranti oppone i muri. Ma così sarebbe la fine". Il governo continua insomma nella sua politica di attrito con i Paesi dell’Europa orientale, ai quali l’Italia avrebbe invece tutto l’interesse a proporsi quale punto di riferimento e anche di mediazione.
Senza pregiudizio per la questione dei ponti e dei muri, che in questa sede non ha senso alcuno, resta il nocciolo della questione, ovvero la persistente incapacità del governo Renzi sia di governare la spesa pubblica che di stimolare la ripresa dell’economia produttiva del Paese. E’ vero che sulla scena di quel teatro dei pupi che è divenuta la politica italiana è difficile immaginare chi potrebbe fare di meglio, ma ciò non ci consola.