Renzi ha fretta e può sfasciare il suo partito
Ieri nella direzione nazionale Pd Matteo Renzi ha imposto la sua linea, convocando l’assemblea del partito per il prossimo week-end, per aprire di fatto la stagione congressuale e per lanciare la sfida finale alla minoranza dem. In questo modo si vuole arrivare al voto il prima possibile, ma si intensifica lo scontro interno, fino alla resa dei conti e si può arrivare alla scissione del partito.
Il dado è tratto. Ieri nella direzione nazionale Pd Matteo Renzi ha imposto la sua linea, convocando l’assemblea del partito per il prossimo week-end, per aprire di fatto la stagione congressuale e per lanciare la sfida finale alla minoranza dem. Il suo obiettivo è blindare il partito in vista delle elezioni, sperando che arrivino prima possibile. Ma accanto ai renziani doc, che dentro il Pd restano comunque la maggioranza, si sta formando un cartello di tante anime dem che non accettano l’impostazione del segretario e promettono battaglia, senza escludere una scissione che avrebbe effetti devastanti anche in termini elettorali.
Nella votazione finale sulle due mozioni contrapposte (quella della maggioranza, che puntava a convocare l’assemblea per indire subito il congresso e quella della minoranza, che chiedeva tempi più lunghi, settembre-ottobre, per il congresso) ha vinto la prima, com’era nella logica dei numeri, ma in un clima di scontro frontale che potrebbe avviare una frattura insanabile dentro il partito e preludere alla sua implosione.
Matteo Renzi ha confermato il suo schema: dimissioni dalla segreteria, congresso immediato ("Si chiude un ciclo alla guida del Pd. Il congresso si terrà con le stesse regole dell'ultima volta", ossia nel 2013, quando Gianni Cuperlo lo sfidò e l’assise si concluse in due mesi e mezzo), revisione della legge elettorale, voto anticipato a giugno o, più probabilmente, in autunno. Dentro il Pd ha dimostrato di avere i numeri per imporre questa road map, che nasce esclusivamente dalla sua sete di rivincita dopo la sonora batosta referendaria del 4 dicembre scorso. Ora però bisognerà capire se anche il Parlamento e il Paese lo asseconderanno in questa accelerazione. Si attendono nelle prossime settimane segnali soprattutto dal Quirinale, che diventa il vero arbitro in questa partita a scacchi, dalla quale dipendono gli equilibri a sinistra ma anche il futuro della legislatura. Senza dimenticare che Renzi per mesi aveva annunciato di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum del 4 dicembre, salvo poi ripensarci e decidere di restare in prima linea per dettare perfino l’agenda a Parlamento ed esecutivo.
D’altra parte, il baldanzoso ex premier lontano da Palazzo Chigi mostra evidenti segni di logoramento e non può permettersi un anno di attesa prima del voto senza riaffermare la sua leadership nel Pd e nel centrosinistra, dal momento che anche i sondaggi lo danno in vistoso calo e addirittura meno apprezzato dell’attuale premier Gentiloni, il cui stile sobrio e low profile sembra piacere di più all’italiano medio.
Nella riunione della direzione di ieri gli interventi degli avversari di sempre, da Pierluigi Bersani a Roberto Speranza, sono stati segnatamente orientati verso l’auspicio di una legislatura che duri fino alla fine, per compiere alcune scelte sul fronte delle politiche sociali, per onorare gli impegni europei, per rassicurare i mercati finanziari e per uniformare i sistemi elettorali di Camera e Senato, come chiede la Corte Costituzionale. Più radicalmente antirenziano il governatore della Puglia, Michele Emiliano, che ha apertamente parlato di fine del renzismo. Significativo anche il “distinguo” di Andrea Orlando, Ministro della Giustizia, che secondo alcuni potrebbe essere lo sfidante di Renzi per la segreteria, l’unico in grado di ricompattare tutte le anime della minoranza dem: "Penso che il rischio che abbiamo di fronte è che il Pd diventi l’epicentro dell’instabilità del sistema politico. Più che un congresso, facciamo una conferenza programmatica ed evitiamo primarie che, senza regole chiare, rischiano di essere una sorta di sagra dell’antipolitica".
In effetti, in caso di scissione, pre o post-congressuale, il Pd perderebbe definitivamente la sua centralità, non potrebbe competere con il Movimento Cinque Stelle e rischierebbe di dover cedere la golden share del centrosinistra alla nuova formazione politica che nascerà dall’iniziativa di Pisapia, Boldrini e altri, che potrebbe attrarre molti transfughi e scissionisti dem.
Ecco perché a Renzi conviene non forzare la mano e tentare di tenere unito il partito. In caso di caos post-voto, un Pd al 20% non avrebbe neppure i numeri per un eventuale governo di larghe intese con i berlusconiani e potrebbero essere proprio i populisti ad avere la maggioranza per governare.
Renzi rischia di sfasciare il suo partito e di sacrificare la stabilità del Paese sull’altare delle sue ambizioni personali. Ieri ha detto ai suoi avversari di darsi una regolata, ma forse l’invito dovrebbe essere rivolto a se stesso.