Regionali, il premier Conte non vuol metterci la faccia
Oggi si vota in Emilia Romagna e Calabria, dopo una campagna elettorale che ha reso evidente a tutti che si vota anche pensando al governo nazionale. Per questo, anche in seguito alle ultime sconfitte locali, il premier Conte si è chiamato fuori. Incerto fino all'ultimo sull'esito, teme di perdere il posto.
Oggi dalle 7 alle 23 si vota in Emilia Romagna e Calabria per rinnovare le amministrazioni regionali. L’appuntamento con le urne, però, assume un innegabile rilievo politico nazionale, viste anche le polemiche delle ultime settimane tra forze di maggioranza e partiti di opposizione. Stasera, a seggi chiusi, verranno svelati gli exit poll e inizierà subito lo spoglio. Ben presto, quindi, si capirà se il Pd riuscirà a conservare la guida di una o di entrambe quelle regioni oppure se anch’esse, dopo le otto regioni passate in due anni dal centrosinistra al centrodestra, cambieranno colore.
Le previsioni sono molto incerte, soprattutto per quanto riguarda l’Emilia Romagna. L’affluenza alle urne sarà decisiva, ma ancor più determinante potrebbe risultare il meccanismo del cosiddetto voto disgiunto, cioè la possibilità, offerta agli elettori, di votare per una lista e per il candidato presidente di un’altra lista. E’ questa, in fondo, la speranza di Stefano Bonaccini, governatore emiliano-romagnolo uscente, che punta a pescare consensi anche tra gli elettori grillini e di Forza Italia. Per quanto gli esponenti di governo stiano moltiplicando le dichiarazioni distensive, rassicurando i propri proseliti sulla stabilità dell’esecutivo anche in caso di doppia sconfitta in Calabria ed Emilia Romagna, in realtà, dietro le quinte, serpeggia un forte nervosismo, soprattutto a Palazzo Chigi.
Il Premier Giuseppe Conte, che nel mese di ottobre si era speso in prima persona con un comizio in Umbria, accanto ai leader della sinistra e del Movimento Cinque Stelle, per perorare la causa del candidato governatore del centro-sinistra poi sconfitto di oltre venti punti dal candidato del centro-destra, ora se ne guarda bene dal mettere la faccia sulla campagna elettorale. Teme lo tsunami sul suo governo qualora le urne dovessero incoronare ancora una volta Matteo Salvini. Il Presidente del Consiglio ha preferito la demagogia. Infatti, nell’ultimo consiglio dei ministri di giovedì scorso, è stata approvata la riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti. La classica mancetta elettorale che dovrebbe spostare quei voti decisivi per impedire la debacle nel voto di oggi. Ma basterà? Certamente non basterà sul piano economico, visto che accreditati studi sostengono che i soldi in più che i lavoratori dipendenti si troveranno in busta paga li accantoneranno in vista di bisogni futuri, considerata anche l’incertezza politica, anziché spenderli in nuovi beni di consumo.
E c’è la fondata possibilità che non basti neppure per salvare la poltrona dello stesso Conte. Si pensi a quale fine hanno fatto i suoi predecessori. Massimo D’Alema, alla vigilia del voto del 16 aprile 2000 in 15 regioni italiane, profetizzò una vittoria del suo schieramento in almeno 10 regioni, ma il verdetto delle urne fu per lui impietoso: 8 a 7 per il centrodestra. Subito dopo l’allora premier fu costretto a dimettersi perché la sua alleanza di governo andò in frantumi. Il vento soffiava in favore del centrodestra che infatti, il 12 maggio dell’anno successivo, vinse anche le elezioni politiche. Nel febbraio 2009 votò solo la Sardegna e bastò quella sconfitta a provocare le dimissioni di Walter Veltroni dalla segreteria del Pd.
Insomma, una disfatta alle regionali farebbe traballare parecchio la poltrona dell’ormai ex “avvocato del popolo” e scatenerebbe altri mal di pancia tra i parlamentari grillini e dentro il Pd. Non è detto che ciò determini automaticamente la caduta dell’esecutivo e l’accelerazione verso il voto anticipato. Un segnale farebbe pensare il contrario. Pare, infatti, che il governo sia intenzionato a convocare già in aprile il referendum confermativo del taglio del numero dei parlamentari. In questa ipotesi Matteo Salvini avrebbe davvero poco tempo per ottenere le urne in primavera. In quel referendum vincerebbero quasi sicuramente i favorevoli al taglio. A quel punto gli attuali parlamentari si blinderebbero alla poltrona fino alla scadenza naturale del 2023, nella quasi certezza di non ritornare più a Montecitorio o a Palazzo Madama. E magari anche Conte potrebbe rimanere in sella altri tre anni.