«Reggiani: il carcere? Meglio che lavorare»
La donna, mandante dell'omicidio Gucci, rifiuta la semilibertà che la costringe al lavoro e spiega: "Non ho mai lavorato in vita mia".
Mi si perdonerà se spezzo una lancia a favore di Patrizia Reggiani (nella foto), riconosciuta mandante dell’omicidio Gucci e condannata a 26 anni di galera. La signora, essendosi già fatta metà della pena, ha diritto alla semilibertà, cioè a lavorare all’esterno e far ritorno in carcere a dormire. La signora Reggiani già Gucci ha fatto sapere che, non avendo ella mai lavorato in vita sua, non intende cominciare a farlo proprio adesso che è in età non più giovanissima. La signora ha, dunque, rifiutato e manda a dire che sta bene dov’è.
Come è noto, il popolo, appresa la notizia, si è indignato. Come! Gli ex ricchi, finiti nella polvere, devono lavorare come tutti! Sentimento comprensibile: l’invidia sociale non sopporta i rentiers, coloro che vivono, talvolta alla grande, senza faticare. Per questo è stata introdotta la tassa di successione. Non è giusto –ha ritenuto la foia egalitaria- che uno nasca ricco solo perché suo padre o suo nonno hanno accumulato patrimoni. No, questa storia dell’accumulo a favore della prole è roba da Ancien Régime e non la si sopporta. Pari opportunità a tutti. Comprensibile che, così educati da due secoli di giacobinismo e confermati da qualche decennio di egemonia marxista, la gente insorga contro la sfacciata che, rivendicando i suoi natali, ricusa quel che i francesi chiamano travail. E che noi chiamiamo lavoro, dal latino labor.
Ora, i due termini esotici sono più vicini alla verità, alla biblica maledizione del «sudore della fronte» che, pur nobilitata da Cristo, sempre fatica rimane. Infatti i napoletani, il popolo più filosofo del mondo (definizione di Massimo Fini), dicono «mo’ vengo ‘e fatica’»; trad.: sono appena tornato da lavoro (ma l’italiano, a differenza del dialetto, non rende la musicalità dell’angoscia insita). Ora, signori miei, la Reggiani ha ragione. Uno che non hai mai prestato in vita sua lavoro servile, come fa a improvvisarsi lavoratore dopo un’esistenza di otia (dal latino otium, che non significava affatto far nulla)? Sì, perché non è pensabile che la semilibertà contempli attività di concetto o direttive o creative. Se in galera ti è permesso prenderti una laurea, leggere, dipingere, coltivare piante ornamentali o allevare furetti (i due ultimi hobby sono quelli effettivamente esercitati dalla detenuta Reggiani), perché mai dovresti sottrarre tempo alle tue passioni per improvvisarti lavoratore dall’oggi al domani?
I siciliani conoscono i primi versi della famosa canzone folk Ciuri Ciuri, li ripropongo: «Tu dici ca lu càrzaru è galera, a mia mi pari ‘na villeggiatura». Così cantava, infatti, il bracciante finito in carcere: lì non doveva più spezzarsi la schiena, tutto il giorno sotto il sole, per un tozzo di pane ma vitto e alloggio erano assicurati dallo Stato. Dunque, per rendere appetibile il lavoro in semilibertà si dovrebbe, preventivamente, introdurre il pane-acqua-frustate per il galeotto. Senno’, chi glielo fa fare? E poi, diciamola tutta: troppi assassini sono oggi in giro grazie al buonismo delle leggi penali (a proposito, perché continuano a chiamare Codice Penale quello che è, ormai, un Codice di Recupero & Riabilitazione?). Perciò, chapeau di fronte a una che le canta chiare: il carcere italiano è meglio della semilibertà.
Chissà che la detenuta Reggiani non sia veramente pentita e voglia scontare la sua pena per intero senza sconti. Nessuno, che io sappia, ha indagato in tal senso. Tutti a scuotere il capo per la madama che non si abbassa a lavorare. Anziché plaudire alla sola carcerata italiana che sdegna gli sconti di pena. Se questo disgraziato Paese tornasse alla serietà penale certe gag penitenziarie ci verrebbero risparmiate. Un suggerimento: si reintroducano i lavori forzati, obbligatori e per tutti. Così che il condannato almeno rifonda la collettività per le spese del suo mantenimento. Invece, ci tocca mantenere pure il furetto.