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INTERVISTA / AIROMA

«Referendum: domande giuste, risposte inadeguate»

«Di fronte a domande giuste, il referendum tende a fornire risposte inadeguate». Il giudice Domenico Airoma (Centro Studi Livatino) legge con la Bussola i cinque quesiti referendari su cui saremo chiamati a rispondere domenica. «L’accesso in magistratura rimane unico, così come rimane unico l’organo che decide su carriera, professionale e disciplina, ovvero il Consiglio Superiore della Magistratura, dove comunque siedono sia i pubblici ministeri sia i giudici. Finché la “casa” è comune, i pericoli di condizionamento reciproco permarranno». 

Attualità 09_06_2022

Contrastare l’abuso delle misure cautelari, limitare lo strapotere della magistratura e la forza delle correnti al suo interno: i referendum del prossimo 12 giugno sono in grado di rispondere a queste esigenze? La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Domenico Airoma, procuratore della Repubblica di Avellino e vicepresidente del Centro Studi “Rosario Livatino”, che ha recentemente espresso la propria posizione sui referendum con un articolo sul proprio sito istituzionale. Secondo Airoma, i cinque quesiti su cui gli italiani sono chiamati a rispondere, portano alla luce problematiche concrete e reali, senza però incidere sul vero cuore del problema, rappresentato dalla modalità di elezione dei magistrati al Consiglio Superiore della Magistratura, che pure è oggetto del referendum.

Professor Airoma, qual è la prima valutazione sintetica che si può dare sui quesiti referendari del prossimo 12 giugno?
In linea generale, possiamo dire che i cinque referendum, di fronte a domande giuste, tendono a fornire risposte inadeguate. Che i referendum intendano incidere su materie molto delicate e controverse mi pare molto chiaro. Che vi sia l’esigenza di una seria riforma dell’ordinamento giudiziario mi sembra altrettanto pacifico. Che vi si giunga attraverso quegli specifici quesiti referendari, però, è quantomeno discutibile.

Andiamo allora ad analizzare i singoli quesiti: la separazione delle funzioni giudicante (pubblico ministero) e requirente (giudice) rappresenterebbe davvero, come alcuni sostengono, un cambiamento radicale?
In realtà, delle notevoli limitazioni nel passaggio da una funzione all’altra sono già state introdotte [tramite il decreto legislativo 106/2006, ndr]. Non si può passare indiscriminatamente da giudice a pubblico ministero e viceversa, e comunque il magistrato può passare da una funzione all’altra, soltanto se viene trasferito a un altro distretto. Il quesito mira ad eliminare anche questi passaggi. Pertanto, quando un magistrato sceglie una sede, nell’ambito ristretto delle posizioni, per tutta la sua carriera farà o il pubblico ministero o il giudice. Se l’esigenza era impedire commistioni tra magistrati, bisogna chiedersi se il referendum può andare in questa direzione, posto che l’accesso in magistratura rimane unico, così come rimane unico l’organo che decide su carriera, professionale e disciplina, ovvero il Consiglio Superiore della Magistratura, dove comunque siedono sia i pubblici ministeri sia i giudici. Finché la “casa” è comune, i pericoli di condizionamento reciproco permangono. Quindi, la domanda posta giustamente dal quesito, richiederebbe una risposta organica complessiva, che potrebbe consistere, ad esempio, nel differenziare l’accesso alla magistratura, in eventuali distinti consigli superiori e così via.

Cosa comporta, invece il quesito sulla modalità di elezione dei magistrati?
Se dovesse vincere il “sì”, verrebbe abrogata la norma che prevede la presentazione di almeno 25 sottoscrittori. I promotori del referendum hanno ritenuto che abrogando questa norma, si eliminerebbe il peso delle correnti, in quanto non sarebbero le correnti a presentare e a sostenere le candidature. Questo ragionamento, però, è illusorio. Finché le circoscrizioni elettorali rimarranno così ampie, con estensione addirittura nazionale, è chiaro che solo il giudice appoggiato da una corrente potrà avere speranze di essere eletto. Anche qui, dunque, ci troviamo di fronte a una domanda giusta dalla risposta quantomeno inadeguata.

I restanti quesiti (abolizione legge Severino, valutazioni sull’operato delle toghe, limitazioni delle misure cautelari) sono forse quelli che hanno suscitato più dibattito. Letti nell’ottica della Costituzione e non dell’ideologia, in che misura tali quesiti cambierebbero la prassi giudiziaria?
Che vi sia sempre stato un certo abuso del ricorso alle misure cautelari è un dato di fatto confermato dai dati relativi agli indennizzi che lo Stato deve pagare per ogni ingiusta detenzione. Il referendum mira a limitare questo abuso. Il problema, però, è che le misure cautelari devono rispettare sia le esigenze di salvaguardia della libertà personale, sia le esigenze di sicurezza sociale: è un bilanciamento che va sempre fatto. L’approvazione di questo quesito potrebbe anche comportare conseguenze controproducenti sotto il profilo della sicurezza sociale: pensiamo a delitti anche gravi come la rapina mediante minaccia o lo spaccio di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti o alcuni delitti che riguardano la pubblica amministrazione, per i quali si usa la misura cautelare.

Anche il quesito sulla Legge Severino manifesta un’esigenza di fondo condivisibile. La Severino prevede che il condannato in via definitiva non possa candidarsi. Se si elimina questo tassello, si torna al sistema precedente, quello dell’interdizione dai pubblici uffici, che il giudice commina nella sentenza di condanna, stabilendo anche la durata della stessa interdizione. Anche questo sistema, in passato, ha dato luogo ad applicazioni non proprio coerenti. Proprio per questo fu introdotta la Legge Severino, sotto certi aspetti certamente criticabile, che, però, intendeva anche rispondere al fatto che, in un certo senso, era il giudice che decideva sulla candidabilità o meno. Dare maggiori garanzie per il diritto costituzionale dell’elettorato passivo è un principio giusto. Dall’altro lato, va tenuto conto dell’esigenza di onorabilità dei candidati.

Possiamo dire, tirando le somme, che una vittoria del “sì” ridimensionerebbe il potere della magistratura?
Assolutamente no. Almeno fino a quando non si mette mano alle modalità di elezione al Consiglio Superiore della Magistratura. Il cuore del problema è lì. Come accennato, la separazione delle carriere, di fatto, già c’è, visti i limiti previsti per il passaggio da una funzione all’altra. Fin quando la “casa” resterà comune, però, qualunque altro intervento finirà per essere solamente illusorio.

Il referendum sulla giustizia è stato ammesso dalla Corte Costituzionale lo scorso febbraio, a differenza di quelli sull’omicidio del consenziente e sulla droga. Qual è il valore politico di questa decisione?
Ormai, molti referendum vengono utilizzati soprattutto come miccia per accendere il dibattito su alcune questioni e anche come forma di pressione nei confronti del legislatore: non dimentichiamoci, a tal riguardo, il pericolo che abbiamo scampato con l’omicidio del consenziente e sulla droga, che hanno assunto un significato politico, quasi a volersi sostituire al legislatore, snaturando così l’istituto referendario, che ha per oggetto disposizioni secche rispetto alle quali si può intervenire con un sì o con no.