Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda, un mito ancora attuale
Nel saggio Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda Paolo Gulisano passa in rassegna i protagonisti principali del ciclo arturiano, ne illustra virtù e fragilità. Rivivono così tra gli altri il leggendario re dei Britanni, Merlino, Lancillotto, Parsifal e Tristano. Nel mito, attraverso il linguaggio del simbolo, emergono i tratti di uomini chiamati a grandi imprese, tra le quali la leggendaria Cerca del Graal.

«La leggenda di Re Artù, nata in principio per celebrare una figura di condottiero britanno che difende la propria terra dall’invasione degli stranieri sassoni, è diventata nel Medioevo prima un mito per l’Inghilterra, simbolo della regalità e fiore della cavalleria inglese, per poi assumere col tempo definitivamente la dimensione di un mito universale». Così Paolo Gulisano - firma cara ai lettori de La Nuova Bussola - introduce il tema del suo saggio dedicato a Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda (Newton Compton, pp. 218).
«Dentro il cerchio della Tavola Rotonda, sotto l’insegna della sacra spada Excalibur, nei giuramenti pronunciati dai cavalieri, nell’amore cortese promesso alla propria dama, vive pulsante un’antica saggezza, un modello umano che nonostante tutto continua a esercitare il suo eterno fascino. Si torna a Camelot, per attingervi forza e valore per affrontare lo scontro coi mostri che popolano la realtà quotidiana». Nel ciclo arturiano s’inserisce anche l’impresa della Cerca del Sacro Graal, uno dei miti fondanti della civiltà occidentale ove, mediante il linguaggio del simbolo, tutta la parabola esistenziale umana viene trasfigurata. Si tratta dunque di «sostenere prove e avventure che hanno come primo scopo quello di cambiare chi l’affronta, e quindi quello di ripristinare un ordine naturale violato, di sanare le ferite inferte, di riportare nel cosmo l’armonia alterata, vincendo le tante seduzioni del male».
In uno scenario storico nel quale i Britanni vengono sconfitti dai Sassoni, anche a causa della grave decadenza morale e religiosa, Artù incarna la figura «di un grande sovrano, di un liberatore invitto, che un giorno sarebbe tornato. Artù è la speranza degli sconfitti e, allo stesso tempo, è emblema della dignità e dell’onore di tutti i vinti della storia, di coloro che sono stati piegati solo dalla forza di un avversario, ma che conservano un cuore e una mente liberi».
La radice celtica del suo nome rimanda alla figura dell’orso, «simbolo del potere regale, che viene dalla forza e dal valore in combattimento»; mentre l’etimo scozzese, ugualmente suggestivo, al termine art che significa roccia. L’autorevolezza del sovrano matura soprattutto grazie al suo fedele mentore: «Artù e Merlino, il potere spirituale e quello temporale, il guerriero e il druido, il re e il sacerdote, l’uno legato al destino dell’altro, nonostante fin dagli inizi sia sempre Artù a essere debitore nei confronti del mago, del suo aiuto, del suo consiglio».
L’Historia Regum Britanniae del monaco Goffredo di Monmouth del XII secolo è una delle fonti principali del ciclo arturiano. Secondo la sua versione Merlino sarebbe figlio di un demone. Eppure il mago è «la prova vivente dell’efficacia della grazia cristiana: il suo concepimento, secondo alcune versioni del mito, era stato voluto dal diavolo per generare una creatura più potente di tutti gli altri uomini, una sorta di anticristo destinato a diffondere il male tra il genere umano. Ma la ragazza scelta per ospitare nel suo grembo questo essere - una vicenda che ricorda quella dell’incarnazione di Gesù Cristo - è una nobile gallese dal profondo e intenso senso religioso, e resasi conto della sua gravidanza chiede la benedizione di un santo eremita per quel figlio che porta in sé. Merlino viene consegnato a Cristo già nel suo stato embrionale», osserva acutamente Gulisano.
Nella figura di Artù mito e leggenda s’intrecciano dunque costantemente. Di qui il figlio di Uther Pendragon è l’unico a riuscire a estrarre Excalibur dalla roccia, ovvero una spada piantata come una croce, per cui viene acclamato re e diviene in breve tempo sovrano di tutti i popoli celtici delle isole britanniche. Goffredo ne fa quasi un precursore di Carlo Magno, ossia il fondatore di un impero anche germanico di matrice cristiana, sebbene egli preferisca regnare su Logres custodendo l’ordine e la pace ed esercitando «la capacità di far crescere rende migliori gli uomini e la terra, la facoltà di far fruttificare i talenti e le potenzialità» del suo popolo.
Alla corte di Camelot, archetipo di una Gerusalemme terrena costruita a immagine di quella celeste, siedono accanto ad Artù tra i ventiquattro cavalieri intorno a una tavola rotonda - che «assicura uguaglianza di rango a tutti» e segno di unità - anche Lancillotto e Parsifal. Il primo è il cavaliere più valoroso, che pecca e tradisce la fiducia del re, anche a causa della sua passione per Ginevra, ma sa chiedere perdono, per cui il sovrano lo vuole al suo fianco nell’ultima battaglia; il secondo invece, preso dalla smania di diventare cavaliere, soffoca le domande profonde del cuore e si rivela incapace di riconoscere il Graal, ma è sempre pronto a ricominciare. Un vero cavaliere è chiamato a coltivare le virtù cardinali, ma anche la magnanimità e la regalità nel servizio al prossimo, rifuggendo anzitutto le tentazioni della superbia e della vanagloria. Tra i princìpi base della cavalleria arturiana ci sono «non ricorrere mai alla forza senza un giusto motivo; non abbassarsi mai all’assassinio e al tradimento; non negare misericordia a chi ne avesse fatto richiesta; proteggere fanciulle e dame, in particolare le vedove, facendone valere i diritti e senza mai farne oggetto della propria lussuria, e infine non battersi mai per una causa ingiusta o per vantaggi personali».
Conducendo il lettore alla riscoperta dei valori del mondo cavalleresco tra grandi imprese e fallimenti, fragilità ed eroismi, Gulisano ricorda così a ciascuno che è chiamato ad incarnarli nella fedeltà alla propria missione al servizio del Re.