Rapimenti e riscatti, mille anni di storia da riscoprire
La vicenda di Silvia Romano è occasione per gettare luce su un fenomeno storico plurisecolare e oggi ignorato. La nascita - dopo secoli di rapimenti, uccisioni e conversioni forzate da parte dei musulmani - degli Ordini dei Trinitari e dei Mercedari. I cui membri si impegnavano a riscattare i prigionieri cristiani, o con la raccolta di elemosine o anche offrendosi di sostituirli. Il fine primario era preservare la fede degli ostaggi. Una storia ricca di episodi eroici, fino al martirio.
La vicenda di ostaggi italiani catturati da fondamentalisti musulmani continua a dominare l’interesse dell’opinione pubblica, e di riflesso le cronache, specialmente televisive, con punte critiche ricorrenti, come il caso di Silvia Romano. Sedici anni orsono suscitò scalpore e polemiche la vicenda delle due Simone, la romana Torretta e la riminese Pari. Si concluse il 5 ottobre 2004 con la loro visita di ringraziamento a Giovanni Paolo II. L’anno successivo suscitò grande interesse la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. Paradossalmente tra la persistente, e diffusa, ignoranza di un fenomeno storico secolare; ma sempre con il coinvolgimento pieno del potere politico.
Ha fatto il suo tempo il coinvolgimento religioso. Importantissimo sino agli albori dell’Ottocento, ebbe come grandi protagonisti due Ordini religiosi - onore e vanto della Chiesa cattolica - cioè gli Ordini dei Trinitari e dei Mercedari, fondati proprio per un’opera meravigliosa di carità - la liberazione degli ostaggi (secondo un calcolo attendibile, più di centomila) - arricchita dalla palma del martirio di tanti suoi membri. Mai però, prima d’ora, si era visto uno spiegamento di uomini, intelligenze, energie e denaro per il riscatto di un’italiana ostaggio dei musulmani che, una volta “liberata”, ha affermato di essersi convertita all’Islam, confermando questa sua decisione con un rigoroso abbigliamento per la cerimonia di accoglienza.
A questo punto non si capisce di che “liberazione” sia stata oggetto. Come musulmana, Silvia non aveva bisogno di essere riscattata, era titolare di diritti sanciti dalla Sharia e da secolari consuetudini sociali. Forse non le era consentito dai suoi rapitori di venire in Italia, ma i Servizi segreti, italiani e turchi, più quelli dell’inesistente Stato somalo, in mesi e mesi di trattative si presume fossero venuti (o dovessero essere giunti) a conoscenza della sua condizione. Cioè che non in una “liberazione” essi erano impegnati, quanto in un’impresa di sottrazione di una musulmana ad un’emergenza, ormai però ovvia in società islamiche che i fondamentalisti intendono sottomettere pienamente alle loro convinzioni religiose. Convinzioni che Silvia, convertendosi all’Islam, dovrebbe ben conoscere e, se non apprezzare, almeno accettare.
Quindi non si capisce perché abbia aderito al progetto di venire in Italia a spese dei suoi connazionali, su un aereo di Stato, con tutti gli onori e gli applausi riservati ad una “liberata”. Non si capisce nemmeno perché di questo non ne sapessero (o non fossero stati informati) il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri. E la pubblica opinione. Alla luce di quanto sopra l’aspetto e il quantum, sempre annebbiato, del “riscatto”, dovrà essere portato alla luce.
In attesa dunque degli attesi chiarimenti, dei Servizi segreti impegnati e della Magistratura, il caso di Silvia Romano offre l’occasione di evocare all’interessata e a tanti nostri connazionali come, per secoli, siano intercorsi i rapporti tra i musulmani del Mediterraneo e gli europei, in particolare gli italiani. Ricordando fra l’altro che i Mercedari, entrando nell’Ordine, aggiungevano ai tre voti di povertà, castità e ubbidienza quello “di sostituire con la loro persona i prigionieri in pericolo di rinnegare la fede”. E che, per consuetudine, chiedevano ai “redenti” di testimoniare ai benefattori “il buon impiego delle loro offerte”.
E se si ha desiderio di approfondire queste relazioni, c’è un’abbondanza di studi e libri storici, dalle ricostruzioni affascinanti oppure orripilanti (correlati a episodi di eroismo o di crudeltà), come l’eroica difesa di Famagosta (agosto 1571) di cui fu protagonista Marcantonio Bragadin, pagata con un inenarrabile martirio (fu addirittura scuoiato!) per aver egli disdegnato di convertirsi all’Islam. E a proposito di conversioni - tutte di cristiani deboli o malvagi - le pagine di storia ne sono rivelatrici di parecchie, tra le righe delle guerre tra Venezia e l’Impero ottomano. Fra le più evocate quella di un perfido uomo di mare di origini calabre, conosciuto col nuovo nome di Uluch Alì, che fu Bey di Algeri nonché uno dei tre ammiragli turchi nella famosa battaglia navale di Lepanto (7 ottobre 1571).
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TRINITARI E MERCEDARI, 600 ANNI DI “REDENZIONI” *
La cattura di ostaggi, la loro liberazione o la loro esecuzione da parte di musulmani non sono affatto un fenomeno nuovo per il mondo occidentale. Per secoli, e in particolare tra l’VIII e il XIV, ha dilagato nell’area mediterranea - protagoniste migliaia di persone - un fenomeno che ha riempito le cronache europee e che sembra oggi del tutto dimenticato. Allora furono delle istituzioni volontarie cristiane, e in particolare due Ordini religiosi, a prodigarsi per la liberazione degli ostaggi; sovente per la loro “redenzione” onde evitare che venissero ridotti in schiavitù, condizione alla quale potevano sfuggire se rinnegavano la propria fede.
Sullo sfondo una situazione di conflittualità. L’Europa medievale, costretta a una guerra permanente con il mondo islamico in espansione, dovette ricorrere alle armi per difendere le persone e i luoghi cristiani, la propria identità diremmo oggi. Il mar Mediterraneo era divenuto un lago musulmano. Nelle contese quotidiane, i mori o saraceni o turchi, come venivano chiamati i musulmani, saccheggiavano le terre dei cristiani depredando e facendo bottino di tutto quel che poteva loro rendere, e impadronendosi di uomini, donne, bambini che vendevano poi al miglior prezzo. Anche da parte cristiana venivano catturati dei musulmani, mai però ridotti alla schiavitù, essendo considerati soltanto prigionieri di guerra e come tali persone da scambiare in contropartita di altre da liberare.
Quale la sorte dei cristiani? Che farne? Gli ulema, i dotti religiosi islamici, proponevano di effettuare una preventiva distinzione tra ostaggi “deboli” e “combattenti”. Raccomandando che ai primi, secondo la prescrizione del primo califfo Abu Bakr, fosse risparmiata la vita, e nemmeno che si infierisse o li si torturasse; indicando quindi la scelta fra una loro liberazione (al-mann) senza contropartite (invero quasi mai seguita); il riscatto (al-fidà) e la schiavitù (al istirqaq). A coloro che erano stati catturati combattendo spettava l’esecuzione (al qatl); diversamente dovevano subire delle punizioni corporali prima di essere liberati al prezzo di un riscatto.
Questi precetti coranici venivano confermati dalla tradizione profetica, la Sunna (secondo la quale in alcune occasioni Maometto si era mostrato clemente, in altri aveva dato ordine di uccidere), e dalla giurisprudenza corrente che lasciava comunque all’imam la decisione. E, d’altra parte, la liberazione di prigionieri e ostaggi musulmani (al faqaq) veniva considerata un dovere religioso, da conseguire combattendo o attraverso lo scambio o il riscatto, e per questo attingendo alla tesoreria pubblica nel caso di un prigioniero non ricco abbastanza per potersi riscattare da sé.
Per fronteggiare una situazione complessa, vasta per proporzioni e dalle enormi implicazioni sociali, era emersa la necessità di ricorrere a mediazioni e mediatori, a livello di missioni diplomatiche in certe condizioni e occasioni, e comunque di persone di buona volontà, riconosciute tuttavia dalle autorità; ma soprattutto si era affermata l’esigenza sempre più avvertita di un impegno di carità cristiana, di un’opera di misericordia, specie per i più poveri e più deboli.
Così si spiega la nascita verso il 1193 del primo “ordine religioso redentore clericale”, quello della Santissima Trinità, fondatore san Giovanni de Matha, un illustre docente nell’università di Parigi; e, nell’agosto 1218, di un altro “ordine religioso redentore”, questo però in origine laicale, dal titolo “della Vergine Maria della Mercede”, fondato dal commerciante spagnolo san Pietro Nolasco. Entrambi gli Ordini perpetuano ancor oggi la memoria di una testimonianza straordinaria di imprese di carità, testimoniata nell’arco di cinque secoli da decine (ma secondo altre fonti, alcune centinaia) di migliaia di “redenzioni” cui provvedevano raccogliendo in Europa, quasi sempre mendicando (e i Trinitari a dorso d’asino, essendo loro vietato di andare a cavallo) il denaro preteso per i riscatti; stabilendo nelle città musulmane delle basi operative; sovente con propri religiosi pronti a sostituire gli ostaggi in cattività; parecchi di essi affrontando il martirio.
Innumerevoli sono gli episodi di eroicità e di santità tramandati nella pratica della carità misericordiosa di questi due Ordini. I pericoli erano sempre in agguato per terra e per mare, innumerevoli le traversie nel Mediterraneo, maggiori le pene che i religiosi patirono dai musulmani “molte volte schiaffeggiati, lapidati, bastonati, feriti con la spada, coperti di sputi, trascinati per le strade e nel fango e preparati per il martirio”, come recita una cronaca dell’Ordine della Mercede.
Un’eco di tante violenze e tragedie sopravvive nella memoria popolare di tante città italiane, evocata sia nelle spettacolari “giostre del saracino”; così come nella diffusa esclamazione, divenuta proverbiale, “Mamma, li turchi!”. Le innumerevoli torri di avvistamento lungo le coste della penisola, come la costruzione di tanti borghi sulle creste di monti nelle valli attraversate da importanti fiumi, come il Tevere e l’Aniene, sono anch’esse testimonianza dell’allerta costante.
Un orrore simile a quello provocato dalle barbare esecuzioni degli ostaggi nella recente guerra nell’Iraq suscitano i resoconti delle uccisioni degli ostaggi di una volta. Vale ricordarne qualcuna. Il militare Serapio, santo, che lasciò il servizio del re di Castiglia per entrare nell’ordine di Nostra Signora della Mercede impegnandosi nella liberazione degli ostaggi negli anni tra il 1222 e il 1240, ebbe un’atroce morte, “inchiodato a una croce come quella di sant’Andrea e squartato crudelmente” per ordine del sultano di Algeri, Selim Berimenin, che si era ritenuto ingannato per il mancato arrivo della somma pattuita per il riscatto di alcuni cristiani. Somma che, frutto di una colletta di elemosine, purtroppo non era giunta in tempo.
San Pietro Pascual (o Pascasio), anch’egli mercedario, che era stato consacrato vescovo a Roma (nella cappella di san Bartolomeo all’isola Tiberina nel 1296) e che fu catturato mentre compiva la visita pastorale nella sua diocesi di Jaén e tenuto in ostaggio nel regno musulmano di Granada, ricevette più volte il prezzo del suo riscatto, ma preferì che altri riacquistassero la libertà al suo posto. Il 6 dicembre 1300 fu decapitato nella prigione “rivestito ancora dei paramenti che aveva usato per celebrare la Messa”.
Il nobile Pietro Armengol, dopo una giovinezza scapestrata, volle testimoniare la sua conversione di vita nell’Ordine mercedario impegnandosi nel riscatto degli ostaggi. Alla seconda missione, nel 1266, si offrì in pegno per alcuni cristiani divenuti schiavi, ma il denaro per il riscatto non giunse in tempo e fu quindi condannato a morte per impiccagione. Solo che rimase vivo appeso alla forca (aveva invocato la protezione della Madonna) e così lo trovò l’indomani fra Guglielmo da Firenze, latore del denaro pattuito. “Pietro Armengol restò con il collo storto per tutto il resto della sua vita”, fino alla santa morte nel 1304. E come santo viene oggi venerato.
E ancora san Raimondo Nonnato (soprannome datogli per esser nato grazie a un taglio cesareo sulla madre appena morta). In una missione di liberazione di ostaggi e schiavi ad Algeri “patì la perforazione delle labbra che gli vennero chiuse con un lucchetto di ferro per impedirgli di dirigere delle parole di conforto e di predicare la Parola di Dio”. Riscattato dai suoi confratelli, papa Gregorio IX lo nominò cardinale. La sua fama di santità, anche per un prodigio nel 1240, in occasione della traslazione della sua salma, si diffuse in tutta la cristianità.
L’ultima storica “redenzione” di cui sono stati protagonisti i Mercedari avvenne nel 1798: portò, dietro pagamento di un riscatto, alla liberazione nella città di Tunisi di 830 prigionieri catturati nell’isoletta sarda di Carloforte.
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Organizzando a Roma nel 1998 la principale manifestazione culturale dell’ottavo centenario della Regola della Congregazione dei Trinitari, padre Giulio Cipollone, storico di questo suo Ordine e illustre docente universitario, ha avuto una straordinaria percezione dei tempi d’oggi, proponendo la tematica, esplicitata nel titolo del congresso: “Oltre la Crociata e il Jihad, tolleranza e servizio umanitario”, stimolando così “una riflessione e una lettura comune… all’interno del mondo globale del monoteismo”. Riflessione di cui papa Innocenzo III era stato antesignano inviando la Regola che aveva approvato il 17 dicembre 1198 al capo della dinastia Almohade dei Berberi. Così compiendo, come ha sottolineato il cardinale Angelo Sodano, “una prima mossa di sapore internazionale in favore del servizio umanitario”. La Regola poi, in occasione del congresso, è stata tradotta in arabo come “gesto di apertura per una novità di relazione tra i credenti monoteisti e nell’auspicio di uno scambio di testi di pace”.
I due Ordini hanno nel tempo modificato le loro Costituzioni, impegnandosi nella lotta di nuove forme di schiavitù. Purtroppo resiste tuttora, ha notato padre Cipollone, “un disuguale sforzo operativo concreto per l’opera della redenzione tra i diversi mondi religiosi” e continua a notarsi nell’Islam “l’assenza di una organizzazione a carattere internazionale per il servizio umanitario”.
*Sintesi di uno studio del 2004, compiuto dall’autore di questo articolo all’epoca della «liberazione delle due Simone»