Rai: la "riforma" della sinistra si chiama lottizzazione
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Come da copione il Pd accusa il centrodestra di allungare le mani sulla tv di Stato e rispolvera l'idea di Gentiloni: affidarla a una fondazione, che non sarebbe poi tanto neutrale...
Nella discussione senza fine sulla lottizzazione della Rai, intesa come spartizione di poltrone e posti di potere tra le forze politiche, le parti in causa sono sempre due, anche se si invertono in base ai risultati delle elezioni politiche: chi prevale nelle urne, dà vita al governo e con voracità occupa la tv pubblica in tutte le sue ramificazioni; chi viene bocciato dagli elettori e, non potendo occupare la Rai, propone di riformarla.
Ora il copione prevede che sia il centrodestra, vittorioso nel voto del settembre scorso, a piazzare le sue pedine in viale Mazzini e il centrosinistra a rosicare, gridando allo scandalo e invocando una riforma del servizio pubblico radiotelevisivo. Un film già visto tantissime volte. La pellicola appare usurata, ma ci sono forze politiche che si ostinano a riproporla e infatti il Pd ha appena estratto dal cilindro una proposta di legge per riformare la governance Rai ora che la Rai è stata egemonizzata da chi ha vinto le elezioni.
Peccato si tratti di una riforma già presentata nel 2007 da Paolo Gentiloni, quando era Ministro delle Comunicazioni del governo Prodi, uno degli esecutivi più deboli della storia della cosiddetta Seconda Repubblica, quello che si reggeva sui voti di Rifondazione comunista e dei nostalgici del comunismo, e che infatti durò meno di due anni. La fotocopia di quella riforma fu presentata anche nel 2020 dall’allora vicepresidente del Pd, Andrea Orlando, ma anche in quella occasione si arenò. Mancavano i numeri in Parlamento e per fortuna mancheranno anche questa volta, considerato che il centrosinistra è assai diviso e che il Pd e i 5Stelle, anche mettendosi insieme, non avrebbero mai la forza di imporre una riforma della tv pubblica.
Tuttavia vale la pena di svelare le criticità, le debolezze e i trucchi di questa proposta dem, che apparentemente vuole assicurare pluralismo e meritocrazia, sganciando la tv pubblica dai meccanismi di cooptazione della politica, ma in realtà finirebbe per consolidarli.
Il testo proposto dal Pd si compone di quattro articoli e si prefigge, a parole, di sottrarre la Rai ai partiti, di impedire che i vertici vengano designati in base alla fedeltà e, di fatto, di cancellare la riforma fatta nel 2015 da Renzi (quando peraltro era segretario del Pd), che consolida il potere del governo sulla Rai, lasciando le briciole alle opposizioni.
Il Pd, sempre in linea teorica, è ossessionato dal modello Bbc, che però funziona in maniera ben diversa da come immaginano Elly Schlein e soci, perché è basato sull’effettivo coinvolgimento del pubblico nelle scelte di palinsesto e in una costante interlocuzione con tutti quei corpi intermedi che assicurano una piena rispondenza dei contenuti radiotelevisivi pubblici alle variegate sensibilità dei cittadini-utenti.
Inoltre, il concetto di neutralità, che il Pd prova con scarsa credibilità, visti i precedenti, a introdurre nella governance della tv pubblica, viene abbastanza applicato in Inghilterra, dove è radicato nei costumi istituzionali e nel rapporto tra i poteri. Invece, nel caso del progetto riformatore del Pd per la tv pubblica, si tradurrebbe in una semplice modifica delle procedure, per favorire in realtà un rimescolamento di carte già fra un anno, quando gli attuali vertici Rai saranno in scadenza e il centrodestra avrà tutte le carte in regola per sostituirli con uomini di sua fiducia.
Il partito della Schlein vorrebbe in sostanza che una Fondazione diventasse azionista di controllo della tv di Stato, sostituendo il Ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi l’influenza del governo. La Fondazione dovrebbe avere compiti di indirizzo e di impulso, predisporre e far rispettare il contratto di servizio, difendere l’autonomia anche attraverso il potere di scelta e di revoca degli amministratori della concessionaria radio-tv, ai quali resterebbero poteri gestionali e operativi. Inoltre, e qui arriva il bello (si fa per dire), la Fondazione dovrebbe anche nominare il Consiglio d’amministrazione in base a criteri precisi, scegliendo i componenti «tra persone di riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza, che si siano distinte nei settori della comunicazione, dell’audiovisivo, del cinema, delle arti, della cultura, del diritto, dell’economia». Ma anche finora formalmente è stato così. Si trattava di persone apparentemente in possesso di quei requisiti.
E chi li dovrebbe designare secondo il Pd? Cinque spetterebbero ai Presidenti delle Camere (anche oggi il Parlamento è l’editore di riferimento della Rai), due alla Conferenza Stato-Regioni (anch’essa dominata dalla politica), uno all’Accademia dei Lincei, due alla Conferenza dei Rettori e uno ai dipendenti Rai (che è già presente nell’attuale procedura di nomina). Morale: vengono coinvolte istituzioni come la Conferenza dei Rettori e l’Accademia dei Lincei che storicamente sono sempre state vicine alla sinistra. E perché proprio quelle due istituzioni e non altre?
Sembra dunque che la sinistra voglia riportare surrettiziamente i suoi fedelissimi in Rai coltivando strade alternative e affidando la governance della tv pubblica a realtà culturali che formalmente sono neutrali ma storicamente hanno spesso strizzato l’occhio a quella parte politica. Non è questa la strada giusta per ripulire la Rai dalle logiche partitocratiche e soprattutto non è credibile un partito che si indigna di fronte alla lottizzazione solo perché questa volta l’ha subìta e non gestita.
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