Ragioni di speranza in tempo di crisi
La negazione della verità rende impossibile la comunicazione tra gli uomini e fa arretrare l'uomo a livello di bestia. E nelle scuole vengono proposti autori che riducono la natura del desiderio di infinito alla stregua dei bisogni materiali. Bisogna ripartire dall'io e da un allargamento del nostro concetto di ragione.
La crisi culturale ed educativa contemporanea è proprio grave. Non se ne parla, tanto si è presi dall’altra grave crisi, quella economica, e tanto si è forse del tutto anestetizzati dalla cultura che è promossa dai massmedia e dalla scuola. Oggi, persa la fiducia nell’aldilà, l’uomo ha perso anche la fiducia nell’al di qua. Tutte le generazioni del passato, secondo Camus, si credevano nate per rifare il mondo. La nostra sa che non lo rifarà. Il suo compito è ben più grande, consiste nell’impedire che venga distrutto. Un giovane nell’epoca odierna si trova circondato dal cinismo e dal nichilismo contemporaneo che ha preso il nome di relativismo.
Spenti tutti i lanternoni del passato, l’epoca contemporanea assiste all’accensione di un nuovo lanternone culturale che nega l’esistenza di qualsiasi verità assoluta, privilegia una finta tolleranza in nome di un presunto multiculturalismo, si rivolge all’esperto in ogni campo, una volta che tutte le figure di riferimento del passato sono cadute. Persa di vista l’unità del sapere e il senso complessivo della cultura, si assiste ad una parcellizzazione delle discipline che non sono più riconducibili ad un unicum, che non riescono a dialogare tra loro.
Tanta letteratura del Novecento documenta questa difficoltà o impossibilità a raggiungere la verità, il Mistero della realtà. Se non c’è una verità o se essa non è da noi conoscibile, non è possibile una reale comunicazione tra gli uomini, perché non si può pensare di mettere in compartecipazione una verità che sia portata da uno dei due interlocutori o che sia derivata da altri. Quando la verità è negata alle radici, ognuno continua a camminare nel proprio tunnel di vetro trasparente in cui potrà vedere gli altri, senza, però, entrare realmente in contatto con loro. Da qui derivano il senso di solitudine e l’individualismo dell’uomo contemporaneo.
Il relativismo culturale dal campo della conoscenza ha investito nel tempo il campo etico. In assenza del bene e del male, ogni azione umana è arbitraria e soggettiva, cioè valutabile esclusivamente a partire da criteri personali del soggetto che l’ha compiuta. L’azione non è più buona in sé, ma in relazione al fine e agli obiettivi che chi la compie si è prefissato. Il passaggio dal relativismo gnoseologico ed etico a quello estetico è immediato. Se bello, buono e vero coincidono, in mancanza di un bene e di un vero oggettivi, anche il bello perde uno statuto di esistenza.
Non c’è proprio più nulla allora che possa distinguere l’uomo dalla bestia e l’homo religiosus è definitivamente ridotto a homo oeconomicus. L’uomo non è più domanda di Infinito, esigenza di felicità, di amore, di bellezza, ma è materia pensante, non dissimile dalle bestie, se non perché più avanti nella linea evolutiva e perché più cattivo. Questo è il pensiero che viene inoculato nei giovani, già nelle scuole attraverso lo studio di quei «grandi» della cultura che si propongono come pilastri del pensiero e del progresso, da Montaigne («siamo come api») a Malthus (troppi uomini abitano la Terra) a Darwin (il disegnino dell’uomo che deriva dalle scimmie è inculcato nei bimbi fin dalle elementari) a Zola (i sentimenti umani sono semplici reazioni chimiche) fino a Lévi Strauss (l’uomo è solo materia pensante). Anche la natura del desiderio è così ridotta alla stregua dei bisogni materiali. Il giovane si ritrova così, dai 14 ai 20 anni, complice la cultura dominante distillata gradualmente e la scuola, pressoché ateo o agnostico o del tutto disinteressato alla questione del destino.
Quella di oggi è una gaia disperazione, propria di un uomo che, pensando di poter fare a meno di Dio, deve anche dimenticarsi del destino. Vuole vivere sereno, tranquillo, ottimista, anche se senza ragioni di speranza. Il modello umano di divo idolatrato proposto dai mass media contemporanei è un uomo non impegnato con il reale, in apparenza solare, che non sente il peso della vita, non comunica davvero, non si mette in relazione con gli altri, è autonomo, non ammette responsabilità, non si prende cura degli altri, ma solo di se stesso. O così almeno crede.
La leggerezza dell’io è l’altra faccia della medaglia dell’insostenibile pesantezza di una realtà divenuta incognita, inconoscibile, carcere tetro e ragnatela che impedisce di evadere. La leggerezza dell’essere è conseguenza dell’incapacità a reggere un rapporto vero con la realtà, che è diventata insopportabile, una volta che si è fatto fuori il Mistero, il Creatore, il Destino, una volta che si è soli e che ci si percepisce soli.
Così nella società abbiamo davanti a noi molti idoli, che mostrano non la verità e la bellezza, ma se stessi come risposta al bisogno e alle domande dell’uomo. Gli idoli non sono compagnia nel cammino dell’esistenza. Se lo fossero, mostrerebbero tutta la loro inconsistenza. Gli idoli sembrano affascinare per la loro presunta autonomia, per l’autosufficienza, come se fossero in grado di darsi la felicità da soli. L’uomo autentico, il giovane come l’adulto, percepisce che non ha bisogno di idoli, ma di maestri. Oggi è sempre più necessaria la presenza di maestri. Il maestro, colui che guida e che è autorevole, non rimanda a sé come risposta ai problemi della vita, ma comunica altro, indirizza al bene e conquista gli altri proprio perché non avvinghia a sé. Il maestro sprona al «desiderio del mare aperto», non si sofferma sulla noia del particolare slegato dal desiderio di navigare.
Qual è la speranza da cui si può ripartire? Qual è la risorsa che abbiamo in quest’epoca di grave crisi? La prima risorsa è proprio il nostro io, che per natura ha un desiderio infinito come quello che il poeta Ungaretti esprime quando scrive in trincea la poesia «Dannazione» nel 1916: «Chiuso fra cose mortali// (anche il cielo stellato finirà)// perché bramo Dio?». Proprio il desiderio è il primo bersaglio delle mire del potere, che vorrebbe ridurre l’uomo a consumatore e che riduce, quindi, il desiderio umano a semplice bisogno e piacere da soddisfare. Per questo occorre che l’uomo conservi un atteggiamento di stupore, proprio del bambino, quell’impeto che entra con curiosità nell’avventura della realtà per conoscerla. La seconda ragione di speranza, come ha detto il Santo Padre in un’intervista che è passata pressoché sotto silenzio, è che Gesù Cristo è semplicemente vero, Lui c’è, è irriducibile e resiste al tempo, agli attacchi, alle crisi. Lui è, quindi, la roccia su cui fondare la nostra certezza.
Quale umanesimo è oggi ancora possibile? Un umanesimo che riscopra l’uomo nella riscoperta di un Padre, Dio, che si è rivelato come amore, che si riappropri della legge morale universale nel coraggio di guardare di nuovo alla ragione umana. Il Papa Benedetto XVI propone «un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa». Già san Paolo con il suo richiamo «Vagliate tutto, trattenete quello che è buono!» ci propone una ragione aperta a tutto, che dialoga con tutti, che non misura, ma si spalanca al vero e al bene. Ragione e fede sono comunicanti e in continuo dialogo. La storia stessa della cultura e dell’evoluzione tecnico-scientifica è fondata sul metodo della fede, sulla fiducia tributata a testimoni credibili. La ragione spalancata e non ridotta arriva a cogliere che l’uomo non può capire tutto il Mistero della realtà. Si protende così a percepire l’inadeguatezza della condizione umana di fronte all’infinito, a capire il limite nella conoscenza e la necessità che sia il Mistero a rivelarsi.
Giovanni Fighera è l'autore di Che cos’è mai l’uomo, perché di lui ti ricordi? L’io, la crisi, la speranza, Ares, Milano 2012, 15 euro.