Radici latine di Machiavelli e del fine che giustifica i mezzi
Notevole l'influsso che la commedia di Plauto (255 a. C. circa-184 a. C.) ha esercitato sulla Mandragola di Machiavelli, l'opera teatrale più importante del Cinquecento. E' lì che si afferma il principio del "fine che giustifica i mezzi", anche nella sfera privata e sentimentale. Alla radice della moderna schizofrenia morale.
L’influsso della commedia latina su quella italiana (e, quindi, europea) è davvero notevole. Troppo lungo sarebbe esaminarlo nella sua complessità. Esemplificheremo allora con gli influssi che la commedia di Plauto (255 a. C. circa-184 a. C.) ha esercitato sull’opera teatrale più importante del Cinquecento: la Mandragola di Niccolò Machiavelli, scritta nel 1518.
La commedia si apre con un prologo del tutto simile ai prologhi plautini. Dapprima colui che lo pronuncia (chiamato appunto prologo) chiede agli ascoltatori di prestare attenzione all’opera e di rimanere in silenzio, perché egli deve raccontare un fatto insolito avvenuto nella città di Firenze. Alla richiesta di attenzione segue, poi, la presentazione della scenografia in cui si svolgeranno le azioni e dei personaggi.
Le dramatis personae, ovvero i personaggi dell’opera, hanno spesso nomi parlanti, che ben connotano le figure. Il nome Callimaco è suscettibile di molteplici interpretazioni etimologiche: un possibile etimo greco potrebbe alludere alla «bella battaglia» che Callimaco vuole combattere con la giovane Lucrezia di cui si è invaghito; oppure la derivazione latina (da «callidus») potrebbe indicare l’astuzia che connota il personaggio; e ancora la parte finale della parola («-maco») potrebbe richiamare all’autore Machiavelli (come se lo scrittore avesse voluto nascondere il proprio pensiero in quella figura).
Fra Timoteo, calcolatore e decisamente malizioso, è un nome che con ironia sottolinea la irriverenza nei confronti di Dio. Messer Nicia è il tipico personaggio beffato della commedia di Plauto e risente molto anche della figura di Calandrino presente nelle novelle del Boccaccio. La fedele moglie di Nicia si chiama Lucrezia, proprio come la matrona romana per eccellenza, quella moglie di Sesto Collatino che si suicidò dopo essere stata violentata dal figlio del re di Roma Tarquinio il Superbo nel 509 a. C. In seguito a quel fatto avvenne l’insurrezione dei Romani che portò alla scacciata degli Etruschi dalla città di Roma. Nome più adatto a quella donna non poteva essere assegnato, soprattutto in relazione alla conclusione della vicenda quando capiremo che, in realtà, la pudicizia non è affatto virtù propria di quella donna.
La madre di Lucrezia porta poi il nome della suocera della commedia di Terenzio (185 a. C. – 159 a. C.) Hecyra. L’etimo latino (da «substratum») indica la sostanza: il nome alluderebbe, quindi, ad una persona affidabile, forte, dai sani principi. In realtà la madre di Lucrezia si rivela tutto il contrario.
Il titolo della commedia, Mandragola, indica la pozione che Callimaco, presentatosi come medico a messer Nicia, fa assumere a Lucrezia, perché la coppia, ancora priva di figli, possa finalmente festeggiare la nascita di un bambino. Il finto medico convince messer Nicia che se la moglie assumerà una bevanda a base di mandragola e poi andrà a letto con un uomo potrà finalmente rimanere incinta, mentre quell’uomo probabilmente morirà.
Se Messer Nicia facilmente viene convinto della necessità di un tale subdolo inganno, Lucrezia, al contrario, non vuole in nessun modo accondiscendere ai disegni prospettati. Allora Ligurio paga fra Timoteo, abile e disonesto, perché parli con Lucrezia e la convinca ad avere un rapporto con uno sconosciuto. Il confessore le rivelerà: «Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità: che dove è un bene certo e un male incerto, non si debba mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo: che voi ingraviderete, acquisterete un’anima a messer Domenedio. El male incerto è che colui che iacerà dopo la pozione con voi, si muoia. È si truova anche di quelli che non muoiano, ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel pericolo. Quanto allo atto che sia peccato, questo è una favola: perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliare piacere, e voi ne avete dispiacere». L’espressione «la volontà è quella che pecca, non el corpo» risente senz’altro del racconto che Livio scrive sul suicidio di Lucrezia (Ab urbe condita I, 58, 6-12): «corpus est tantum uiolatum, animus insons» ossia «solo il corpo è stato violato, l’animo è innocente») e ancora «mentem peccare, non corpus» (ossia «è la mente che pecca, non il corpo»).
Si inizia a comprendere che la commedia più importante del Cinquecento vive tutta di questo rapporto con le fonti latine, non solo teatrali, come abbiamo visto. Senza queste allusioni si perde gran parte del significato più profondo dell’opera. Scoprire le fonti non è esclusivamente un’operazione di carattere culturale e intellettuale, ma permette una comprensione più profonda e vera del significato vero del testo. «La volontà è quella che pecca». Fra Timoteo afferma che a peccare è la volontà, non il corpo. Con tale asserzione viene in maniera subdola espressa la «schizofrenia contemporanea» che tende a separare lo spirito dal corpo, l’amore dal sesso, la volontà dall’azione. L’uomo ha perduto quell’integrità della persona che la tradizione cristiana ha sempre promosso.
Di solito, i manuali di scuola e la maggior parte degli studiosi di Machiavelli affermano che il principio machiavellico «il fine giustifica i mezzi» sia stato affermato dal Segretario fiorentino solo nell’ambito politico ovvero solo nel campo della «ragion di stato». Nel discorso teorizzato da Fra Timoteo viene, però, asserito tale principio anche in una prospettiva privata laddove i due coniugi desiderano avere un figlio, ma le loro condizioni non lo permettono. Afferma, infatti, il frate «El fine si ha a riguardare in tutte le cose».
Non proseguiamo oltre nei richiami letterari ai testi latini. Bastino queste esemplificazioni. Come si conclude la commedia? Alla fine Lucrezia, persuasa da fra Timoteo e dalla madre, andrà a letto con uno sconosciuto che scoprirà più tardi essere il giovane Callimaco. Questi diventerà, all’insaputa di messer Nicia, l’amante della donna. Lo sciocco Nicia avrà il tanto sospirato figlio. Nella triste scena finale Callimaco, Lucrezia e messer Nicia si recano a messa: è come se simbolicamente venissero celebrate le nuove nozze tra Lucrezia e Callimaco.