Quelle libere traduzioni che snaturano il sacro
Forse bisognerebbe ripartire dalla persuasione che il contenuto dei testi liturgici racchiude ben più della nostra misera comprensione ed attualizzazione, sia nella scelta del vocabolario che nella struttura retorico-formale. E questo principio dovrebbe essere ricordato anzitutto dai liturgisti.
Nel libro di p. U. M. Lang, The Voice of the Church at prayer ho letto con grande interesse della “conversione stilistica” di sant’Agostino. Abituato alla purezza dello stile retorico ciceroniano, l’idioma della Vetus Latina ed il linguaggio biblico, così ricco di immagini materiali, gli andarono non poco di traverso; troppe bestiae et pecora, troppe immagini di Dio che vendica, stende la mano sui nemici e fa tremare i monti e la terra. Ad essere meno nota è la grande umiltà di questo santo, che comprende che la sua iniziazione non può essere limitata all’insegnamento delle verità della fede ed alle esigenze della vita morale, ma deve condurre ad immergersi in un mondo che è fatto di immagini, gesti e linguaggio propri, di un repertorio di ricordi, nomi ed espressioni condivise.
L'IMPORTANZA DELLE PAROLE
Questa consapevolezza lo portò alla fine della sua vita a scrivere le Retractationes, nelle quali in realtà non ritrattò pressoché nessun contenuto, ma sentì l’esigenza di purificare i suoi scritti da termini ed espressioni che sapevano ancora troppo di paganesimo. I cristiani, specie nei primi secoli, custodivano con gelosia il proprio vocabolario e non avevano una concezione di evangelizzazione e missione come di una rinuncia alla propria identità. In un bellissimo articolo (disponibile in lingua inglese qui) il professor Robert L. Wilken sottolinea una verità che sembra essere sparita dall’orizzonte pastorale della Chiesa: «La fede è incorporata in un linguaggio... Il linguaggio della Chiesa è una raccolta di parole ed immagini che hanno plasmato il pensiero e le azioni di quanti hanno conosciuto Cristo. La fede confessata non può essere separata dalle parole usate, né le parole possono essere sradicate dalla vita di chi le pronuncia… Senza il linguaggio caratteristico cristiano non ci può essere una vita cristiana completa e neppure una fedele trasmissione della fede alla generazione successiva».
GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI
I pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno dimostrato una particolare sensibilità da questo punto di vista, cercando di orientare il lungo processo di attuazione della riforma liturgica con la cura delle traduzioni dei testi latini del Messale Romano. Delle cinque istruzioni per la corretta applicazione di tale riforma, l’istruzione più problematica dal punto di vista delle traduzioni fu la terza, Comme le prévoit del 25 gennaio 1969. Già la lingua del titolo è significativa: l’originale, in lingua francese, fu poi tradotto nella altre cinque lingue maggiori, ma mai in latino.
Inoltre l’istruzione non arreca la firma ufficiale e non è stata pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis. Ma non sono “solo” questi gli aspetti problematici. Il contenuto di questa istruzione spianava la strada ad una vera e propria rivoluzione nel campo delle traduzioni dei testi liturgici, con il solito giochetto del “così, ma anche”; si richiedeva la fedeltà ai testi latini, ma anche una traduzione più libera, troppo libera: «Talvolta è la concezione stessa delle realtà espresse che è difficile a comprendere, sia perché è uno choc al senso cristiano attuale (per esempio “terrena despicere”, oppure “ut inimicos sanctae Ecclesiae humiliare digneris”), sia perché non tocca più i nostri contemporanei (per esempio certe espressioni antiariane), sia perché non si presta alla preghiera attuale (per esempio certe allusioni a forme penitenziali non più praticare)» (n. 24 c). Da allora, le traduzioni non hanno più conservato la struttura formale dell’originale, considerata come un vestito logoro da cambiare, e hanno introdotto termini che esprimono solo un aspetto dell’originale latino e spesso nemmeno troppo fedele.
FACCIAMO QUALCHE ESEMPIO
Di esempi ce ne sarebbero a bizzeffe. Prendiamo l’orazione dopo la Comunione della prima domenica di Avvento: Prosint nobis, quæsumus, Dómine, frequentáta mystéria, quibus nos, inter prætereúntia ambulántes, iam nunc instítuis amáre cæléstia et inhærére mansúris. Ecco l’incredibile traduzione italiana: La partecipazione a questo sacramento, che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita, ci sostenga, Signore, nel nostro cammino e ci guidi ai beni eterni. Com’è evidente, l’originale latino è stato semplicemente stravolto. “Ci insegni ad amare le realtà celesti” è diventato un “rivelare il senso cristiano della vita”, e da proposizione oggettiva (che indica dunque ciò che viene chiesto nell’orazione) è stata inserita nella relativa. Spunta poi dal nulla un “ci sostenga nel nostro cammino” ed il verbo “inhaerere”, che significa letteralmente “rimanere attaccati, uniti, aderire” si trasforma in un “ci guidi verso”.
L’Orazione sulle offerte del martedì della seconda settimana di Quaresima dice: “a vitiis terrenis emundet”, tradotto banalmente con un “ci guarisca dai nostri egoismi”. “Sancta continentia tibi simus toto corde devoti” (Colletta del mercoledì, terza settimana di Quaresima), diventa “ti servano con generosa dedizione (che elimina così l’espressione biblica ‘con tutto il cuore’) liberi da ogni egoismo”, trasformando in tal modo una santa mortificazione in una liberazione dall’egoismo.
Il vocabolo “grazia” è stato un’altra illustre vittima sacrificale delle traduzioni. “Illumina, quaesumus, corda nostra gratiae tuae splendore” (Dopo la comunione, quarta domenica di Quaresima) è diventato “risplenda su di noi la luce del tuo volto”.
Abbiamo addirittura il caso della stessa identica orazione, tradotta in due modi differenti (Orazione dopo la Comunione, feste di san Luca e san Marco)
LITURGIA AUTHENTICAM
Nel 2001 la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha pubblicato un’altra istruzione (la quinta e attualmente ultima) Liturgiam authenticam, nel tentativo di porre un argine a questa emorragia del patrimonio cristiano: «Bisogna che, per quanto è possibile, il testo originale o primigenio sia tradotto con la massima integrità e accuratezza, cioè senza ricorrere a omissioni o aggiunte, quanto al contenuto, e senza introdurre parafrasi o glosse» (n. 20). L’istruzione ricorda inoltre che «la vera preghiera liturgica… concorre a forgiare la cultura; perciò non c'è da meravigliarsi se può differire alquanto dal linguaggio ordinario. La traduzione liturgica che tiene in dovuto conto l'autorità e l'integrità del senso dei testi originali giova a formare una lingua sacra vernacola, dove i vocaboli, la sintassi, la grammatica siano propri del culto divino» (n.47).
Chiaro? Non ancora. Nel 2012 Benedetto XVI indirizzò una lunga lettera ai vescovi tedeschi sulla controversa traduzione del “pro multis”. Tra le altre cose il Papa scriveva: «Poiché devo pregare le preghiere liturgiche in diverse lingue, mi accorgo che tra le diverse traduzioni a volte è difficile trovare ciò che le accomuna e che il testo originale è spesso riconoscibile solo da lontano». E lamentava banalizzazioni e perdite importanti.
Forse bisognerebbe ripartire dalla persuasione che il contenuto dei testi liturgici racchiude ben più della nostra misera comprensione ed attualizzazione, sia nella scelta del vocabolario che nella struttura retorico-formale. E questo principio dovrebbe essere ricordato anzitutto dai liturgisti. O forse ai liturgisti. «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia» (William Shakespeare, Amleto).