Quella matta(rella) voglia di interventismo del Quirinale
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Dopo anni di governi alchemici, ora che l'esecutivo è espressione della volontà popolare, il capo dello Stato lancia frecciate su immigrazione, autonomia e populismo. Le ultime esternazioni presidenziali alimentano più di un dubbio sul suo effettivo ruolo super partes.
Alcune malelingue hanno prontamente commentato: “Mattarella ha gettato definitivamente la maschera”. In effetti le ultime esternazioni del Capo dello Stato hanno alimentato più di un dubbio sul suo effettivo ruolo super partes, che peraltro ha dimostrato di incarnare in diversi frangenti (non in tutti per la verità) del suo primo settennato e anche del secondo, ancora agli inizi.
Sergio Mattarella è un uomo di sinistra con le sue convinzioni, che ultimamente sembrano riaffiorare in maniera nitida. Non perché le esterni con nettezza ma perché semplicemente prende posizione su temi che invece andrebbero lasciati alla dialettica politica e al libero confronto tra partiti. In realtà, però, ci si accorge che la dialettica politica non può esserci perché a sinistra appare un vuoto culturale e di iniziativa politica che la svolta Schlein non ha minimamente colmato.
In altri termini, l’opposizione politica non la fa il Pd, non la fanno gli esponenti della sinistra, che litigano tra di loro e con i 5 Stelle per contendersi la guida del cosiddetto campo largo, ma la fanno per un verso i sindacati, per un altro verso i conduttori televisivi nettamente schierati da quella parte e a sprazzi lo stesso Quirinale.
Nei giorni scorsi a Milano, il Capo dello Stato, intervenendo alle celebrazioni dei 150 anni della morte di Alessandro Manzoni, ha definito il grande letterato «un padre della Patria» e ha preso la palla al balzo per bacchettare il governo su immigrazione e autonomia regionale, temi cari soprattutto alla Lega, ma in generale a tutto il centrodestra. Anzitutto ha tuonato contro il concetto di etnia italiana, ma più in generale ha messo nel mirino il populismo di certa politica, che si esprime anche attraverso i social e coltiva un’emotività irrazionale e pericolosa per il Paese.
In molti hanno visto nelle sue parole un attacco preciso al Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, cognato della Meloni. «In quanto figlia di Dio, è la persona – ha detto Mattarella, ricordando il “pensiero” di Manzoni – a essere destinataria di diritti universali, di tutela e protezione. Non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale. La Costituzione vieta nefaste concezioni di supremazia della razza». Questa frase va letta inequivocabilmente come una reazione alle esternazioni fatte da esponenti del governo in materia di sostituzione etnica ed etnia italiana. Il problema è che un Presidente della Repubblica non dovrebbe addentrarsi in questioni che attengono alla determinazione delle politiche nazionali da parte di chi ha ricevuto legittimamente un consenso popolare e lo sta certamente esercitando nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione, senza debordare dai suoi confini.
Inoltre il Capo dello Stato ha anche messo in guardia da un uso disinvolto dei social da parte della classe dirigente, perché i social avvelenano il dibattito pubblico (in questo le parole del Presidente appaiono sagge e di buon senso). Anche su questo tema, però, forse ha detto qualcosa di troppo, alludendo indirettamente al centrodestra e descrivendo un Manzoni attento alle masse, «popolare ma senza essere populista», capace di vedere già allora i pericoli «che corrono oggi le società democratiche di fronte alla diffusione del distorto e aggressivo uso dei social media, dell’accentramento dei mezzi di comunicazione nelle mani di pochi, della disinformazione organizzata e dei tentativi di sistematica manipolazione della realtà».
Quindi ha fatto anche un affondo finale a partire dalla Storia della colonna infame, definito da Mattarella «un capolavoro di letteratura civile, compreso e rivalutato solo a partire dal secolo scorso, che ci ammonisce di quanto siano perniciosi gli umori delle folle anonime, i pregiudizi, gli stereotipi; e di quali rischi si corrano quando i detentori del potere, politico, legislativo o giudiziario, si adoperino per compiacerli a ogni costo, cercando solo un effimero consenso».
Se a questo discorso del Presidente della Repubblica si aggiungono anche i suoi recenti sermoni su riforme istituzionali, pandemia e perfino balneari, ce n’è abbastanza per concludere che forse, dopo tanti anni di governi figli di compromessi e di alchimie tra perdenti, essendoci un governo finalmente espressione di una chiara e inequivocabile volontà popolare, il ruolo di supplenza del Capo dello Stato come voce critica verso l’esecutivo appare un tantino fuori luogo. All’epoca dei governi di larghe intese il ruolo di mediazione del Quirinale ha funzionato come elemento di stabilizzazione del quadro politico. Oggi presta sicuramente il fianco a critiche di eccessiva invadenza e di interventismo smodato.