Quel senso del sacro
L'importanza della devozione mariana all'ombra di due famosi santuari: quello dedicato alla Beata Vergine delle Lacrime di Treviglio e quello della Madonna di Caravaggio. Un'atmosfera di sacralità che sollecita lo spirito a sollevarsi senza escludere il corpo.
A proposito di pietà popolare e dei santuari come luoghi nei quali la devozione si può particolarmente esprimere, permettetemi di attingere alla mia esperienza personale. Sono stata infatti, in questo senso, una bambina fortunata, perché la mia infanzia si è svolta all’ombra di due santuari mariani importanti. Quello della Beata Vergine delle Lacrime di Treviglio, grande, bello, proprio nel cuore della città, molto amato e frequentato ma più locale, e quello, a soli sei chilometri di distanza, della Madonna di Caravaggio, forse il più importante santuario della Lombardia, comunque assai noto sia in Italia che fuori. Una strana situazione, questa, di due importanti luoghi mariani così vicini.
Ripensandoci, ho la sensazione che ci fosse come una sorta di gerarchia non detta e che alla fine le cose si aggiustassero in questo modo: la nostra Madonna delle Lacrime era quella di pronto intervento, sempre presente, sempre attuale. Se c’era un problema difficile, un dolore, una situazione complicata prima o poi se diceva: dobbiamo andare in Santuario e chiedere aiuto alla Madonna. Se poi la difficoltà si prolungava nel tempo, si metteva in programma di andare a Caravaggio. Ciò può far sorridere qualcuno, ma credo che abbia una motivazione inespressa e tuttavia presente in sottofondo, e cioè il fatto che, nonostante la distanza fosse poca, andare a Caravaggio, magari in bicicletta, il veicolo più in uso allora, significava pur sempre compiere un pellegrinaggio con tutto quello che ciò significa. Cioè uscire dalla propria dimora e da se stessi per andare verso quella Madre buona che certamente si sarebbe interposta come Mediatrice presso Dio, per ottenerne l’aiuto.
Poi, però, quando il 28 di febbraio (o il 29 se l'anno era bisestile) cadeva la ricorrenza del miracolo del pianto di Maria, che nel 1522 aveva salvato Treviglio dall’assedio francese, non c’erano altre Madonne che tenevano. Ci si preparava spiritualmente con la novena. Le funzioni erano tre al giorno: la mattina prestissimo, per quelli che poi dovevano andare a lavorare, alle due del pomeriggio e infine alle otto di sera. Io di solito andavo a quella pomeridiana ma qualche volta, con la donna di servizio, anche alla mattina presto prima della scuola.
Non era semplicissimo perché a fine febbraio faceva ancora freddo ed era ancora buio ma il Santuario traboccava ugualmente di fedeli imbacuccati. Io non capivo nulla dei lunghi sermoni ma non me ne importava niente perché mi lasciavo investire dal calore che emanava dai canti e dalle preghiere e da quella sensazione di gioia che sembrava attraversare tutti. Ma era festa anche civile e comunitaria perché arrivava un ricco Luna Park, che si stabiliva in una delle piazze, mentre le vie del centro si riempivano di bancarelle di dolciumi e delle caratteristiche castagne cuneesi macerate nel vino e montate in grandi collane che avevano un nome strano, i “biligot”.
La festa della Madonna di Caravaggio cadeva invece il 26 maggio. Il segno che si stava avvicinando era il rumore sull’asfalto, la mattina presto, delle ruote dei carri dei contadini che, a gruppi, si recavano in pellegrinaggio. Stavano seduti sui bordi, con le gambe penzoloni; dietro, tutti i fagotti con il cibo tra cui non mancavano mai il coniglio in umido e le crostate con la marmellata. Ma cominciavano anche i primi pullman stracarichi e puzzolenti di fumo per chi veniva da più lontano.
I miei genitori erano un po’ troppo borghesi per partecipare a questa festa di popolo ma io riuscivo sempre ad intrufolarmi e ad aggregarmi a qualcuno e, almeno nel giorno della festa, ad andare fino al Santuario. Anche in questo caso, ricordo le messe affollate, e poi la discesa in fila indiana fino al luogo della Apparizione di Maria a Giovannetta, l’evento da cui tutto era nato, e dove ancora scorreva la fonte. Anche noi bambini ci inginocchiavamo e frettolosamente recitavamo una preghiera. Poi, anche qui, la festa “profana” fatta di canti, di cibo, di giochi sull’erba nei prati dentro e fuori il recinto del santuario.
È solo “il bel tempo andato” che mi fa ricordare tutto così bello e coinvolgente? Non lo so, ma non credo. Lo dico perché sono convinta che quello che succedeva allora, pur in condizioni sociali mutate, avvenga anche oggi attorno ai santuari mariani che, non per niente, sono ancora così frequentati. E cioè, quell’atmosfera sacra che si crea vicino a Maria, atmosfera che sollecita lo spirito ad elevarsi ma che non esclude mai il corpo. Un Sacro, dunque che non si contrappone al profano ma che, anzi, lo stringe a sé in un unico abbraccio consolatore. Ecco, proprio questo credo sia il senso profondo della pietà popolare.