Quel riso negato ai missionari italiani in Africa
Urge una revisione completa della spesa. Il governo butta centinaia di milioni in aiuti a governi corrotti e instabili, come quello somalo. Mentre nega persino l'invio di aiuti alimentari (riso) alla missione italiana in Burundi.
Se la spending review, la revisione della spesa pubblica, fosse intesa unicamente come una politica di tagli alle spese mancherebbe il suo obiettivo che è quello di migliorare efficienza ed efficacia dell’apparato statale. Condizione necessaria, a tal fine, è la valutazione accurata, attenta ed esperta di come ripartire, destinare e impiegare i fondi, da compiersi in base a criteri ben ponderati.
In molti casi questo basterebbe a risparmiare denaro, senza sacrificare e, anzi, migliorando i servizi e le prestazioni. Considerato il modo in cui le risorse vengono utilizzate, uno dei settori a cui la revisione della spesa pubblica non può che giovare è quello della cooperazione allo sviluppo, bilaterale e multilaterale (per cooperazione bilaterale si intendono le iniziative concordate tra un paese donatore e uno in via di sviluppo; si dice multilaterale la cooperazione realizzata da organismi internazionali – ad esempio, le agenzie delle Nazioni Unite – con finanziamenti, obbligatori o volontari, forniti dai governi che aderiscono a quegli organismi o si impegnano a sostenerli).
Un buon punto di partenza ai fini della spending review sarebbe sospendere i finanziamenti ai governi riluttanti a contrastare corruzione e malgoverno: magari subentrerebbero altri Stati (se lo ritengono conveniente, Cina o i paesi arabi, a seconda dei contesti, lo fanno), corruzione e malgoverno continuerebbero ad arricchire ministri, parlamentari e funzionari pubblici, ma se non altro l’Italia potrebbe destinare più risorse a progetti utili.
La Gran Bretagna, ad esempio, ha appena sospeso gli aiuti al Malawi, che da essi in gran parte dipende per far quadrare il proprio bilancio, a causa di un grosso scandalo di corruzione: dai fondi pubblici risultano sottratti capitali per un valore di 185 milioni di euro. «Gli aiuti non riprenderanno – ha dichiarato un portavoce del dipartimento britannico per lo sviluppo internazionale – finché non sarà provato che quelli già erogati non sono stati utilizzati in maniera impropria».
Potrebbe preludere ad analoghe iniziative l’accusa rivolta in questi giorni dai donatori internazionali al governo del Tanzania, che deve il 20% del proprio budget ai loro contributi, di non fare abbastanza per combattere la corruzione nella pubblica amministrazione e ai vertici della politica. Gli scandali finanziari più recenti hanno coinvolto responsabili delle autorità portuali e della compagnia elettrica parastatale Tanesco e i segretari dei ministeri della sanità e dell’energia e delle risorse minerarie. È da anni che i donatori protestano e che il governo promette di rimediare… il che gli è valso ancora quest’anno un contributo finanziario di 560 milioni di dollari per il periodo 2013-2014.
Misure di controllo tempestive si richiedono anche per la Somalia. Come si ricorderà, il 16 settembre a Bruxelles sono stati stanziati 1,8 miliardi di euro per il suo “New Deal”, a cui l’Unione Europea contribuirà con 650 milioni di euro (che si aggiungono al miliardo e cento milioni dati tra il 2008 e il 2013). Prontamente l’Italia ha annunciato di offrire nove milioni: il tutto affinché davvero il governo somalo avvii un processo democratico e di sviluppo, accantonando divisioni di clan e conflitti di potere e mettendo un freno alla corruzione che fa sparire due terzi dei capitali ricevuti dalla cooperazione internazionale (sette dollari su dieci, secondo un rapporto della Banca Mondiale). A Bruxelles i delegati somali si erano lamentati che i paesi donatori avessero quasi tutti mandato a rappresentarli funzionari di basso livello e si erano detti preoccupati che gli impegni assunti dai donatori rimanessero sulla carta. Due giorni dopo il presidente della Somalia in persona, Hassan Sheik Mohamud, era alla Farnesina per definire con il Ministro degli affari esteri, Emma Bonino, i dettagli del contributo italiano.
Ebbene, il 3 novembre, dopo sette settimane soltanto da quando aveva assunto la carica, il governatore della Banca centrale somala, Yussur Abrar, una donna già dirigente di Citybank, ha rassegnato le dimissioni accusando l’esecutivo di corruzione e di tali manomissioni della finanza pubblica da renderle impossibile proseguire. Lo ha spiegato in una lettera pubblicata dal Financial Times, spedita mentre si trovava a Dubai dove forse ancora risiede: certo è che non intende tornare in patria perché teme per la propria vita. Yussur Abrar era subentrata ad Abdulsalam Omer, implicato negli scandali relativi alla gestione degli aiuti internazionali. La sua nomina era stata interpretata come segno delle buone intenzioni del governo.
Come se non bastasse, il 13 novembre si è avuta conferma di un serio scontro istituzionale tra primo ministro e presidente che minaccia la stabilità del governo, come già è successo più volte dal 2004, anno in cui, con la mediazione della comunità internazionale, i signori della guerra somali hanno accettato di costituire un parlamento e un governo.
Dal Burundi intanto un missionario saveriano, padre Claudio Marano, scrive a Papa Francesco per chiedergli aiuto. Il Centro giovani di Kamenge da lui diretto, nella periferia più povera della capitale Bujumbura, rischia di chiudere interrompendo i servizi formativi offerti a circa 42.000 giovani. Padre Marano – riporta un lancio dell’agenzia MISNA il 5 novembre – lamenta «l’assenza dell’Italia istituzionale da dieci anni» dopo un ultimo contributo di qualche migliaia di euro per la riparazione di alcuni tetti. La scorsa estate – racconta il missionario – il Ministero degli affari esteri ha risposto ‘no’ alla richiesta di sette tonnellate di riso.