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JIHAD

Quel che gli imam devono fare (e non fanno)

Quel che serve per convincere i musulmani a non combattere il jihad contro i cristiani e l’Occidente non è che gli imam vadano a Messa una domenica. Quel che serve è invece che gli imam propongano un Islam che escluda il jihad contro gli infedeli, e contro gli islamici blasfemi e apostati.

Libertà religiosa 06_08_2016
Imam in una chiesa di Parigi

Quel che serve per convincere i musulmani a non combattere il jihad contro i cristiani e l’Occidente non è che gli imam vadano a Messa una domenica, seduti in prima fila, disposti a scambiare il segno della pace con i fedeli (che è la pace di Gesù, non quella degli uomini), a parlare di pace e recitare versetti del Corano e a mangiare pezzi di pane offerti loro dal celebrante al momento dell’Eucarestia.  

Quel che serve è che gli imam nelle moschee e nelle scuole coraniche propongano un islam che escluda il jihad contro gli infedeli, e contro gli islamici blasfemi e apostati. Serve che gli imam in moschea, ogni venerdì dopo le preghiere, parlino degli attentati e della guerra in nome di Allah e li condannino, dicano nome ed età delle vittime di jihad, ne raccontino le vite spezzate. Serve che invitino dei cristiani, uomini e donne, ad andare qualche volta in moschea il venerdì, ovviamente non durante le preghiere, dopo, nel tempo dedicato alle questioni pratiche, sociali, politiche, per parlare insieme magari di problemi e situazioni condivisi: il lavoro, dove passare le ferie, qual è il supermercato migliore, i figli che non ascoltano, i soldi che non bastano, come proteggere i bambini dall’ideologia gender…cose così… 

Questo servirebbe per screditare i jihadisti, per allentare la tensione, per dimostrare quanto siano tutto sommato infondati l’invidia e il risentimento nei nostri confronti. Sarebbe utile anche accettare e anzi sollecitare gli inviti dei musulmani a rompere il digiuno cenando insieme, durante il Ramadan; e invitarli a nostra volta a mangiare panettone a Natale, colomba e uovo di cioccolato a Pasqua, sul sagrato della chiesa o in sagrestia, dopo la messa: mangiare in insieme fa star bene, rende cordiali e ben disposti. 

C’è poi una considerazione per niente marginale a proposito degli imam in chiesa. Nessuno entra in una moschea calzando le scarpe: è la loro tradizione. Gli infedeli accolti in moschea si adeguano, obbedendo all’invito a toglierle e a lasciarle sulla soglia. Chi non è disposto a farlo, è meglio che non ci vada, tanto non lo lascerebbero entrare. 

I musulmani entrano in moschea scalzi. I cristiani maschi entrano in chiesa a capo scoperto. Però le riprese fatte domenica 31 luglio nelle chiese italiane mostrano i musulmani ospiti – seduti nei banchi in prima fila, mentre parlano e recitano versetti del Corano vicino all’altare, in posa per foto di gruppo in cima alle navate – quasi tutti a capo coperto: da una specie di zuccotto, bianco o colorato, oppure da altri copricapo tradizionali. Si dirà che, essendo loro tradizione metterli per pregare, per andare in moschea il venerdì, il loro giorno sacro, averli indossati per andare a messa è stato da parte loro un segno di rispetto. Ma la Messa è una funzione religiosa cristiana, la chiesa è il luogo in cui si celebra, in cui i cristiani pregano e si accostano ai sacramenti: gli uomini a capo scoperto e, fino a non molto tempo fa, le donne velate. 

Meriterebbe sapere se qualcuno ha pensato di spiegare ai musulmani in procinto di entrare in chiesa quella domenica che, per tradizione, i maschi si tolgono il cappello prima di varcarne la soglia e li abbia pregati di farlo. Personalmente tendo a pensare di no. Perché se glielo avessero detto, credo che lo avrebbero fatto, proprio come noi ci togliamo le scarpe in una moschea; oppure se ne sarebbero andati. 

La rivista Il Timone il 1 agosto ha ripubblicato il testo dell’intervento al Secondo Sinodo dei vescovi d’Europa, svoltosi nell’ottobre del 1993, con cui Monsignor Germano Bernardini, arcivescovo di Smirne, chiedeva al Papa di organizzare un Simposio per approfondire il problema dell’Islam in Europa. Monsignor Bernardini, forte della propria esperienza – all’epoca risiedeva in Turchia già da 42 anni – riferiva esempi di come tanti autorevoli esponenti del mondo islamico giudicano i cristiani, raccomandando al Santo padre e a tutti i presenti di non sottovalutarne la rilevanza. 

Tra gli altri ricordava la risposta all’auspicio, formulato nel corso di un incontro cristiano-islamico organizzato da una comunità cristiana, che gli islamici organizzassero anch’essi incontri del genere: «perché dovremmo farlo? Voi non avete nulla da insegnarci e noi non abbiamo nulla da imparare»; e le parole del presidente egiziano Sadat Anwar: «grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo». L’intervento si concludeva con una esortazione: «non si conceda mai ai musulmani una chiesa per il culto, per loro è la prova della nostra apostasia». 

Che cosa avranno pensato gli imam entrando in chiesa il 31 luglio? Che siamo degli ospiti squisiti, esemplari, disposti a tollerare persino comportamenti secondo la nostra tradizione irriverenti pur di non mettere qualcuno in imbarazzo? Oppure invece che non ci importa, che non teniamo più molto alle nostre tradizioni religiose e forse neanche alla nostra fede, che quell’invito in chiesa è stato una prova della nostra apostasia?