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REGIMI

Quei rais africani messi sul trono per volere di Dio

Verso la fine del secolo scorso molti Stati africani accettano di adottare Costituzioni che ridimensionano il potere presidenziale e istituiscono regole democratiche di governo. Sembrava la fine dell’epoca delle dittature e dei regimi personali. Sembrava, ma fatti recenti dicono che non è così.

Esteri 04_11_2015
Pierre Nkurunziza, presidente del Burundi

Il 25 ottobre si è votato in tre Paesi africani: in Costa d’Avorio per eleggere il capo dello stato, in Tanzania per eleggere capo di stato e parlamento, nella Repubblica del Congo per decidere tramite referendum se adottare o respingere alcuni emendamenti alla costituzione. Sebbene per motivi diversi, si temevano disordini e violenze. Ma alla fine non si sono verificati problemi di rilievo.  

Questo sembrerebbe dare ragione a chi vede un consolidamento delle istituzioni democratiche in Africa, se non fosse che in Congo, ad esempio, la riforma costituzionale su cui la popolazione era chiamata a pronunciarsi prevede l’eliminazione degli articoli che impedirebbero al presidente Denis Sassou Nguesso, in carica dal 1979, di presentarsi alle elezioni del 2016: perché ha più di 70 anni, età massima prevista per i candidati, e perché ha già ricoperto il numero di mandati che un cittadino può svolgere. Per questo Sassou Nguesso ha chiesto, per meglio dire ha preteso una nuova Costituzione, suscitando nei mesi scorsi manifestazioni popolari represse brutalmente dalle forze dell’ordine con morti e feriti. Tuttavia, il 25 ottobre il 92,26% degli elettori ha votato a favore della nuova Costituzione, un risultato tanto più significativo in quanto, secondo la Commissione elettorale, l’affluenza alle urne è stata del 72%. 

Opposizione e fonti indipendenti indicano però una partecipazione al voto del 10% soltanto, il che è del tutto verosimile tenuto conto che alle ultime legislative, nel 2012, aveva votato il 15% degli aventi diritto. L’opposizione ha quindi respinto l’esito del referendum annunciando proteste in diverse città, ma poi ha annullato tutte le manifestazioni: forse per timore di una scarsa adesione da parte di una popolazione rassegnata e impaurita o forse per meglio contrattare con Sassou Nguesso le prossime spartizioni degli incarichi governativi. Aveva fatto lo stesso l’opposizione in Burundi dove a luglio il presidente Pierre Nkurunziza ha vinto le elezioni e un terzo mandato violando la Costituzione che, anche in quel Paese, pone il limite a due. Dopo aver organizzato nelle settimane prima del voto proteste popolari contro la sua candidatura costate decine di morti, il capo dell’opposizione Agathon Rwasa ha accettato la nomina a vice presidente del parlamento offertagli da Nkurunziza, rinunciando a ogni forma di contestazione.  

Sono molti i leader africani che come Sassou Nguesso e Nkurunziza vogliono conservare il potere a lungo, anzi, per sempre. Ma devono fare i conti con la Costituzione. Verso la fine del secolo scorso, infatti, per compiacere i donatori internazionali e non perderne i finanziamenti, molti Stati africani hanno accettato di adottare Costituzioni che ridimensionassero il potere presidenziale, includendo tra l’altro il limite di due mandati, e istituissero regole democratiche di governo. Sembrava la fine dell’epoca delle dittature e dei regimi personali, l’inizio di una nuova era. Ma negli ultimi 15 anni almeno 12 capi di Stato hanno chiesto e ottenuto la soppressione degli articoli costituzionali che ne avrebbero escluso la candidatura. Tra questi i più longevi, sia per età sia per permanenza in carica, sono Paul Biya, 82 anni, presidente del Camerun ormai dal 1982, Robert Mugabe, 91 anni, al potere in Zimbabwe dal 1980, Jose Eduardo dos Santos, 73 anni, presidente dell’Angola dal 1979. 

Altri ci hanno provato, ma senza successo: l’ultimo a fallire è stato Blaise Compaore il cui tentativo di candidarsi per l’ennesima volta, non contento di aver governato già per 30 anni in Burkina Faso, è stato sventato un anno fa da una rivolta popolare sostenuta da una parte dell’esercito che lo ha costretto all’esilio. I prossimi su cui incombe l’esclusione dalla competizione elettorale sono Joseph Kabila nella Repubblica Democratica del Congo e Paul Kagame in Rwanda. Entrambi stanno tentando di modificare la costituzione. Paul Kagame ha ottenuto un primo “sì” dalla Camera il 30 ottobre. Joseph Kabila prende tempo, cercando di rimandare il voto previsto nel 2016 e intanto riuscire a far emendare la costituzione. Kabila tra l’altro è uno dei tre presidenti africani che hanno ereditato la carica dal padre. È infatti succeduto a Laurent Désiré Kabila, vincitore della guerra civile nel 1997 e morto assassinato nel 2001. 

Il secondo è Ali Bongo, divenuto presidente del Gabon nel 2009 alla morte del padre Omar, che aveva governato il paese dal 1967. Il terzo è Faure Gnassingbe che ha preso il posto del padre Gnassingbe Eyadema, presidente del Togo dal 1967 al 2005, anno della morte. Altri capi di Stato hanno semplicemente rifiutato di adottare Costituzioni che ne impedissero la permanenza al potere. È il caso di Teodoro Nguema, presidente della Guinea Equatoriale dal 1979 grazie a un golpe e confermato tramite elezioni già quattro volte. Più facile ancora è conservare il potere se non si va al voto. È quel che succede in Eritrea, indipendente dall’Etiopia dal 1993 e da allora governata da Isaias Afewerki, l’“eroe” della guerra d’indipendenza, che non ha mai indetto elezioni.   

I capi di Stato criticati perché non si fanno da parte sostengono che i limiti ai mandati presidenziali sono una imposizione, un’idea estranea all’Africa e inoltre che sarebbe antidemocratico negare alla gente il diritto di permettere a un buon leader di governare. Per Nkurunziza c’è di più. Secondo lui è presidente del Burundi per volontà divina: quindi ha diritto di esserlo fino alla morte.