IL CASO
Quei cattolici abbagliati dal mito di Castro
Non soltanto militanti comunisti e anticlericali. Negli anni Settanta anche nella Chiesa c'erano molti credenti che inneggiavano alla rivoluzione cubana.
Attualità
27_03_2012
Per gentile concessione di Sugarco edizioni pubblichiamo uno stralcio dal libro "Novecento. Il secolo senza croce" (pp. 158, euro 16) di Francesco Agnoli.
Per la verità il mito di Cuba è creato e mantenuto in vita, per anni, non solo da atei dichiarati, di fede comunista, ma anche da molti cattolici. E’ un caso unico, dal momento che tutti gli altri regimi comunisti sono sorti in un’epoca in cui la posizione della Chiesa verso il comunismo era chiaramente di condanna. Pochi anni dopo la rivoluzione cubana, invece, si ha nella Chiesa una grande rivoluzione, ben spiegata da autori come Roberto de Mattei, nel suo “Concilio Vaticano II, una storia mai scritta” (Lindau, 2011) e dal teologo cattolico Brunero Gherardini. Per dirla con Paolo VI, il “fumo di Satana” penetra nel tempio e si diffonde nella Chiesa un pensiero non più cristiano. E’ la famosa crisi dell’epoca conciliare e post conciliare. Ebbene, proprio questa crisi di fede provoca la nascita di una forte corrente “cristiana” a favore del comunismo, incapace di vedere l’intrinseca perversione e malvagità di tale dottrina.
Nel 1974, per capirci, esce in Italia un libro, A Cuba, di Ernesto Cardenal, che può essere molto utile per capire l’infatuazione per la rivoluzione cubana, anche tra “cattolici”, che attraversa l’Europa di quegli anni. Il libro è pubblicato dall’editore cattolico “Cittadella”, di Assisi, la città che diverrà simbolo dell’ecumenismo indifferentista, e porta la prefazione di mons. Ernesto Balducci, alfiere del rinnovamento cattolico post conciliare. In tale prefazione Cuba è vista come un miraggio concreto, come una utopia realizzata, in cui è sorto un nuovo “cristianesimo precristiano”, che ha portato a “maturazione i caratteri nativi della gente cubana come la generosità gratuita, l’estro creativo, la giocosità corale”. A Cuba, spiega Balducci, si vive in una “società liberata e consegnata ormai alla crescita autentica”, sebbene la Chiesa cattolica, cui Balducci dice di appartenere, ma con sdegno, come un Mancuso o un Martini di oggi, non capisca e sconti “la sua lunga solidarietà con il capitalismo imperialistico”. Gli uomini di Chiesa cubana, continua Balducci, non hanno abbracciato la rivoluzione, e questo colpevolmente: che poi scontino qualche persecuzione è in fondo colpa loro, perché si ostinano a non vedere il carattere evangelico del regime di un uomo eccezionale come Castro, finendo così in “esilio volontario, sulla scia dei miliardari”. La rivoluzione cubana, conclude il monsignore, integrando cristianesimo e comunismo, e nonostante attacchi all’istituzione Chiesa, rappresenta “una delle prospettive (forse la prospettiva maestra) che si sono aperte alla Chiesa dopo il concilio”.
Alla prefazione di Balducci segue, appunto, il diario di Ernesto Cardenal, cioè di un celebre poeta latino-americano, divenuto sacerdote cattolico, che narra la sua permanenza a Cuba, 11 anni dopo la rivoluzione. Cardenal dichiara di voler di raccontare tutto ciò che ha visto e sentito, senza filtri, come farebbe un vero amico della rivoluzione: cioè narrando il negativo e il positivo. Ma le sue pagine appaiono quelle di un innamorato alle prime fasi, quando la violenza del sentimento offusca completamente lo sguardo. Così Cardenal riporta qua e là alcune critiche al regime, fattegli da persone cubane che ha conosciuto, ma minimizza sempre: a Cuba i cattolici non possono accedere alle università e ai “lavori buoni”; molti giovani credenti sono stati fucilati, al grido di “Viva Cristo Re”; il Natale, come in tutte le dittature, è stato spostato al 26 luglio, anniversario della rivoluzione; nell’isola non c’è alcuna libertà di stampa; gli omosessuali vengono perseguitati (mentre oggi a Cuba si viaggia verso i matrimoni gay); ci sono state 800 o 1000 fucilazioni nei primi tre anni (“niente rispetto ai tempi di Batista”)... Soprattutto, a Cuba vi sono alcuni campi di lavoro forzato. Cardenal, infatti, racconta di aver incontrato, tra gli altri, un tale Eugenio, ex cattolico, che gli ha parlato anch’egli dei campi di concentramento (Umap: unità militare di aiuto alla produzione). Eugenio gli racconta di esserci finito in quanto cattolico: insieme a lui testimoni di Geova ed omosessuali. Gli omosessuali, aggiunge, “erano felici di essere mandati in campo di concentramento, che per loro era un paradiso”. Infatti vi incontrano altri omosessuali.
Poco importa che nei campi si lavori da 12 a 16 ore al giorno, e che qualcuno, per la disperazione, si suicidi. Io, ha concluso Eugenio, ero “controrivoluzionario”, “di famiglia piccolo borghese”, insieme ad altri 35000 prigionieri: ma nel campo ho capito la verità! Tanto che “in seguito ho avuto l’opportunità di andarmene ma non me ne sono andato. Nel campo di concentramento mi sono reso conto che non dovevo andarmene. Per lottare allo scopo di migliorare la rivoluzione bisogna essere rivoluzionario. Anche le cose negative e gli abusi nel campo di concentramento hanno contribuito a farmi rivoluzionario” . La colpa degli abusi, infatti, non è del regime, di Fidel Castro, ma di Raul e dei funzionari. Uscito dal campo, io come tanti, conclude Eugenio, siamo diventati “anticlericali”, ci siamo accorti che i campi di lavoro forzati sono necessari alla rivoluzione. Così abbiamo ripudiato il nostro vecchio mondo ottuso e controrivoluzionario: “trovavo la parrocchia sempre più incomprensibile. Liturgia, gesti, parole, pensieri, tutto sembrava vuoto e lontano dalla realtà”.
A parte queste notazioni sconcertanti per la leggerezza con cui vengono esposte, e che pure aprono squarci su verità inquietanti, il libro di Cardenal è tutto un peana, un inno, un canto senza freni alla rivoluzione, in cui l’autore vede il paradiso terrestre realizzato, né più né meno. Spiega infatti che a Cuba “una casta di paria non esiste più, tutto il popolo è stato alfabetizzato”; che l’Avana “è la città più allegra che ho visto. L’unica allegra”, perché “nessuno corre dietro al denaro. Su nessun volto si nota una preoccupazione economica. Non ci sono tassisti in agguato degli stranieri, né prostitute, né mendicanti… Migliaia di gente è andata via: ma quelli che sono rimasti sono felici e sono padroni di tutto… Non ci sono differenze nel modo di vestire: nessuna invidia”. I gelati, continua Cardenal, sono “certamente i migliori del mondo”; la gente legge tantissimo; le scuole sono sempre di più e organizzano anche incontri sportivi, gite, feste di ballo, uscite al mare; il pane è sempre in abbondanza (mentre, non è chiaro il perché, scarseggia la carta igienica….); lo Stato dà i soldi per festeggiare, alla grande, anche i compleanni dei bambini; il telefono è gratis e non ci sono tasse; la poliomielite, un tempo tanto diffusa, è scomparsa del tutto a partire dal 1964; ognuno ha una casa e nessuno è più “costretto a dormire in un portone, sotto un ponte o sotto un albero”; gli annunci pubblicitari “incitano sempre al sacrificio, all’eroismo, al lavoro per il bene della comunità”, non come nel capitalismo, che spingono “all’egoismo, all’interesse personale, al piacere individualista”.
E poi Cardenal butta giù cifre e dati, chiaramente di regime, senza affatto vagliarli, per dimostrare che un tempo si stava malissimo, oggi invece a Cuba si lavora, si gioisce, si vive nel benessere e fraternamente. Racconta di aver incontrato, in tutto, due mendicanti davanti ad una chiesa, non uno in più: erano “due vecchi coi capelli bianchi, pulitissimi”. “Ecco quello che si dà ai contadini, scrive, insieme alla casa, gratis: cucina elettrica o a cherosene; pentola a pressione, padelle stoviglie, lavello, frigorifero, televisore, radio, ferro da stiro…lozione per i capelli, profumo…”.
Quanto alla Chiesa, cui dice di appartenere, Cardenal stigmatizza coloro che si oppongono alla rivoluzione, poi afferma: “Da quello che vedo, Cuba è l’unico luogo al mondo dove non vi sia crisi di vocazioni”, salvo raccontare, nella stessa pagina, che dopo la rivoluzione sono fuggite 2000 religiose su 2300 (“la maggior parte per decisione propria, non perché espulse”), mentre “i sacerdoti erano circa 1000, ora sono circa 250”. Le chiese sono vuote: “volti seri, intristiti. Quasi tutti vecchi, o bambini. Pochi giovani. Nessun negro”. Sì è vero, qua e là c’è ancora qualche problema, ammette Cardenal, ma la colpa è dei funzionari del partito, che talvolta spadroneggiano, approfittano del loro potere: ma sempre contro il volere di Castro, che è invece sempre dedito a riparare i torti, ad intervenire perché tutti vivano come lui, senza egoismi, senza invidie, senza prevaricazioni. Tanto che si può dire che Castro è al governo, ma anche “all’opposizione”! Ad un certo punto Cardenal scrive: “Un buon osservatorio per vedere la tenerezza della rivoluzione è l’ospedale psichiatrico dell’Avana. I ricoverati vivono in padiglioni luminosi ed eleganti come un albergo di lusso. Ogni camera decorata allegramente con il bagno privato (di marmo…)…nelle sale dove i ricoverati ricevono, divani e poltrone di lusso, quadri moderni d’autore, fiori freschi. Cinema, teatro, sale da ballo per i ricoverati, biblioteca, sala di musica, campi per tutti gli sport…Naturalmente l’ospedale è gratuito. In una stanza austera, che contrasta con il lusso dell’ospedale, l’ufficio del direttore”: il quale è un compagno di Castro, dall’ epoca della rivoluzione, e quindi lavora per il lusso del popolo, ma lui vive frugalmente!
Alla fine del libro Cardenal confessa che Cuba è stata per lui “la mia esperienza più importante, dopo la conversione religiosa. Era stata un'altra conversione. Avevo scoperto che attualmente, in America latina, praticare la religione significa fare la rivoluzione”, sopprimere le classi, vivere il Vangelo come si vive a Cuba, all’ “Avana luminosa”. Come lui la pensano tanti altri intellettuali, in America latina e nel mondo, in particolare personalità della sinistra e dei vari partiti comunisti del mondo. Molti di questi dovranno col tempo pentirsi della loro “ingenuità” e ritratteranno.