Quando Siena contendeva con Firenze per il primato
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Ci furono degli anni in cui due città toscane erano al centro della vita italiana, si contrapponevano tra loro per la supremazia politica, economica e finanziaria.
Ci furono degli anni in cui due città toscane erano al centro della vita italiana, si contrapponevano tra loro per la supremazia politica, economica e finanziaria. Erano due delle città più importanti d’Europa, che rappresentavano il potere guelfo e ghibellino in Italia. Tra il 1260 e il 1266 Firenze e Siena si scontrarono. L’esito segnò la futura storia politica, culturale e artistica. Il 4 settembre 1260 la battaglia vide contrapposti da una parte Firenze e i guelfi e dall’altra Siena e i ghibellini. Nella località che ha nome Montaperti si erge oggi un mausoleo che ricorda i morti dello scontro. Vicino scorre il fiume Arbia, dove finirono i cadaveri dei fiorentini sconfitti e passati a fil di spada dai senesi, dopo che si arresero in seguito alla sconfitta. I senesi non risparmiarono i fiorentini. Il sangue dei morti colorò di rosso il fiume Arbia secondo le parole di Dante.
La vittoria diede alla città di Siena il predominio sulla rivale, ma solo per qualche anno, finché nel 1266 a Benevento Siena e i ghibellini non furono sbaragliati definitivamente da Firenze e dagli alleati guelfi. Da quell’anno Siena non avrebbe più conteso con Firenze per la supremazia. I ghibellini si coagularono nelle città di Pisa e Arezzo.
Più di vent’anni più tardi, l’11 giugno 1289, Firenze guelfa combatté contro la ghibellina Arezzo. Vi partecipò anche Dante tra i feditori a cavallo. Ciò non significa necessariamente che il poeta disponesse di denaro per potersi mantenere un cavallo, ma ci assicura del fatto che si fosse addestrato al combattimento così bene da poter essere schierato in prima fila. Nel canto V del Purgatorio l’incontro con Bonconte richiama alla mente di Dante la battaglia di Campaldino, alla quale entrambi parteciparono, anche se su fronti opposti: Bonconte tra i ghibellini aretini, Dante tra i guelfi fiorentini.
In quello scontro Dante conobbe probabilmente anche Cecco Angiolieri, nativo di Siena, pressoché coetaneo di Guido Cavalcanti, appartenente a una brigata cui piaceva spendere soldi in banchetti e gaudenti passatempi. Sposatosi, dilapidò i suoi averi tanto che da un documento del 25 febbraio 1313 abbiamo testimonianza del fatto che alla sua morte i figli rifiutarono l’eredità per evitare di sobbarcarsi l’onere del pagamento dei suoi debiti. La fama di gaudente e di dilapidatore del proprio patrimonio è confermata più tardi dal Decameron (IX,4) in cui Cecco Angiolieri è presentato come un edonista che dilapida facilmente le proprie sostanze.
Nelle sue poesie Cecco Angiolieri ama descriversi come un poeta che odia il padre perché non gli permette di condurre la vita agiata che vorrebbe, ha sostituito la Trinità con la «donna, la taverna e il dado», ama non ricambiato la sua Becchina, senhal della donna, che lo porta al Camposanto in maniera antifrastica a Beatrice che accompagna Dante verso il Cielo.
Ci è rimasta una tenzone tra Cecco e Dante in cui emerge un’accesa inimicizia tra i due. Nel sonetto S’i’ so’ buon begolardo Cecco accusa Dante di essere peggio di lui. Entrambi i poeti sono sventurati, esiliati il primo a Roma, il secondo nell’Italia del nord, entrambi fanfaroni, entrambi vanno a mangiare con persone non raccomandabili. Quindi, Cecco conclude il componimento con un monito che, parafrasato, suona così: «Se di questa materia vorrai dire di più, rispondimi pure Dante, che io ti stancherò, perché io sono il pungolo e tu sei il bue».
Capitale bancaria e mercantile europea nel Duecento, nella prima metà del Trecento Siena era ormai sostituita nel suo ruolo da Firenze. Ad ogni modo, il Governo dei Nove (1277-1355) permise alla città di godere di una lunga e proficua stabilità e lasciò tracce marcate e durature nella sua struttura amministrativa e urbanistica.
Dotata di una salda burocrazia comunale dagli organici molto dilatati, Siena andava acquistando i connotati di uno stato territoriale a tendenza regionale. Le aree sottomesse erano sottoposte alla giurisdizione senese secondo una triplice distrettualizzazione: per l’amministrazione locale, per l’ordine pubblico, per la leva militare.
A metà del Trecento, Siena subì una duplice congiuntura sfavorevole. Sotto il profilo economico il quinto decennio si aprì con il fallimento di una trentina di compagnie mercantili e si concluse con la peste nera che ne segnò la crisi demografica ed economica.
A Siena c’è un segno della ricchezza precedente la peste del 1348 e del disastro che ne seguì. È il progetto di ampliamento dell’attuale cattedrale, che doveva diventare il transetto di un edificio gigantesco, con la navata centrale in un nuovo corpo costruito sulla piana della collina orientata verso nord-ovest. Si può ancora oggi vedere l’avvio dei lavori.
Dal punto di vista politico il 1355 segnò la fine di un lungo periodo di stabilità e l’inizio di una situazione più complessa. Intanto, le contrapposizioni tra nobiltà e popolo riacquistarono rilievo in un contesto in cui la faziosità prevaleva generalmente sugli interessi della città. Si succedettero governi formati da coalizioni sociali di volta in volta differenti. La struttura statale creata dal Governo dei Nove non venne toccata da tali rivolgimenti. Ai contrasti politici di natura interna si aggiunsero problemi determinati da eventi esterni: saccheggi, devastazioni operate da compagnie di ventura. Siena cercò di allontanare la loro furia devastatrice con il pagamento di ingenti somme di denaro. Solo nei primi decenni del Quattrocento Siena riuscì a debellare la prepotenza della nobiltà feudale, padrona incontrastata di vaste aree della Maremma e di piccole isole all’interno della Repubblica.
Tra Trecento e Quattrocento la società senese appariva ormai tripartita in nullatenenti, modesti proprietari, grandi proprietari. Tra questi ultimi comparivano cittadini che partecipavano pienamente della vita politica: artigiani agiati, mercanti, gruppi professionisti, membri delle grandi famiglie (Gallerani, Salimbeni, Tolomei, Bonsignori, Piccolomini, Malavolti) che detenevano ricchezze fondiarie impressionanti.
Se si cammina per le vie della città, si possono leggere su palazzi, opere, monumenti, strade il nome di personaggi appartenenti a queste illustri famiglie. Il loro nome campeggia anche nella Commedia dantesca. Pia de’ Tolomei è tra questi. Andata in sposa a Nello d’Inghiramo dei Pannocchieschi, fu scaraventata giù dal balcone del suo castello della Pietra in Maremma da quello che ancora oggi è chiamato «Salto della contessa». Il mandante o il vero e proprio omicida fu il marito.
Nel Trecento, a Siena il processo di inurbamento già iniziato nei secoli precedenti acquistò un carattere più marcato. Nei primi decenni del Quattrocento la città aveva ormai integrato al suo interno molti contadini della campagna.
In questo contesto scrisse Gentile Sermini, novelliere senese della prima metà del Quattrocento. Nella raccolta di quaranta novelle, l’autore vuole competere col Decameron e destruttura il perfetto corpo decameroniano, eliminando la cornice e la suddivisione della giornata per temi. Alla positività del Boccaccio si contrappone nel Sermini un pessimismo dalle radici storiche e politiche, tramato di insicurezze sulla futura autonomia della Repubblica senese, di accesi odi verso alcune fazioni cittadine, di paure palesi nei confronti dei villani. La realtà umana è per il senese un dato pressoché indecifrabile, un magma disordinato in cui poco spazio è concesso all’ingegno umano. La letteratura non può porre ordine al magma caotico dell’irrazionale. Il disordine morale dilaga nel racconto. Insomma, per molti versi la raccolta del Sermini è un anti Decameron.
Siena non è solo terra di letterati, ma anche di grandi artisti e di grandi santi, come vedremo la prossima volta.