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IL CASO

Quando scegliere di morire diventa "normale"

Cresce nel mondo il numero di coloro che rifiutano la vita: le responsabilità di organizzazioni e media.

Attualità 10_02_2011
disperazione

È stato un atto studiato, ponderato, quello della ragazza di diciassette anni che nei giorni scorsi si è tolta la vita, impiccandosi nella sua scuola, a Monterotondo, vicino Roma. Sulla pagina di Facebook aveva scritto “Paradiso, sto arrivando”, riferiscono i mass-media.

L’Oms stima che ogni anno nel mondo muoiano un milione di persone per suicidio - un numero che supera la somma delle morti causate dagli attentati terroristici, dai conflitti bellici e dalle calamità naturali - con un tasso di mortalità per suicidio di 14,5 su 100.000 abitanti. Ogni minuto, vi sono due morti per suicidio e in molti paesi industrializzati il suicidio – che è considerato la tredicesima causa di morte in tutto il mondo per persone di tutte le età - per coloro che hanno meno di 15 anni, è la prima causa di morte in alcuni Paesi: Cina, Svezia, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda; è la prima causa di morte per le persone dai 15 ai 24 anni in moltissimi Paesi ed è una delle cause primarie di morte in tutti i Paesi del mondo per i giovani adulti e gli adulti tra i 25 e i 60 anni. L’Oms stima che dal 1950 al 1995 la percentuale di morti per suicidio è cresciuta globalmente del 60% e prevede un peggioramento dei tassi di suicidio fino a circa un milione e mezzo nel 2020.

Nel fenomeno – che ha costi sociali di miliardi di dollari, che riguardano il potenziale economico delle vite perdute, i trattamenti medici e psicologici dei tentati suicidi, la sofferenza a carico dei familiari - sono anche da considerare i molti milioni di persone che compiono tentativi di suicidio: i tentati suicidi sono attualmente stimati da 10 a 20 volte di più dei suicidi commessi. Negli ultimi anni, si sta affermando, nella classifica dei metodi suicidari, l’ingestione di pesticidi: si stima che in tutto il mondo si verifichino 3 milioni di casi di avvelenamento volontario da pesticidi ogni anno, per un totale di circa 250 mila morti, prassi assai diffusa nelle aree rurali, soprattutto in alcuni Paesi asiatici, ma anche in America centrale e meridionale.

I tassi più alti di suicidio (dati Oms 2000) si riscontrano in Europa in particolare nell’Europa dell’Est: in Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Ungheria, Russia e in Paesi asiatici come Cina e Giappone. Quelle più basse in America Latina, Paesi Arabi e in alcuni Paesi come Argentina, Brasile, Kuwait e Thailandia. In Italia – dove i suicidi, secondo le statistiche Istat 2008, sono quasi 3.000, con un rapporto uomo/domma di 3 a 1 – si è diffusa, negli ultimi anni, una vera e propria cultura suicidaria. Ne sono protagonisti i mezzi d’informazione, che si dedicano a documentare anche i dettagli, ad amplificare e ad enfatizzare – consapevolmente o meno, poco importa – gli atti suicidari. Come se prima o accanto al diritto di cronaca, non vi fosse anche un dovere. In questo caso, quello di preservare altri dall’emulazione di atti suicidiari o, comunque, di non concorrere a diffondere in maniera incontrollata casi di violenza nei confronti di se stessi o di altri. Non si tratta certo di autocensurarsi.

Si tratta di riconoscere che esiste un bene primario, quello del rispetto della vita, propria e altrui ed anche il giornalista – sia esso laico o cattolico – ha il compito di discernere le notizie da divulgare e in un certo senso da propagandare, considerando che nella nostra società esiste un’emergenza principale, che è quella educativa. Masse enormi di giovani e giovanissimi perseguono modelli “disinvolti”: ne sono testimonianza l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti e di alcol, che sono i canali “naturali” della “sperimentazione” mortifera in cui viviamo. Il togliersi la vita, in questo contesto, è considerato un atto “ordinario”. Di cronaca, appunto e, a volte, viene registrato, come se fosse un atto di normalità.

Accanto alla responsabilità dei mezzi d’informazione, vi è quella di organizzazioni che diffondono spot per propagandare il suicidio medicalmente assistito, ad esempio. Anche questo fa parte della nostra “normalità”, che vuole imitare quel che accade in Svizzera, dove “Dignitas” – l’organizzazione che a pagamento assiste gli aspiranti suicidi e li aiuta a morire – è solita produrre un filmino delle morti, che invia alla procura federale come prova di non aver commesso crimini. Lì praticano anche la morte per soffocamento, che si determina quando dal sacchetto di plastica che copre la testa ed è allacciato al collo, non penetra neanche un filo d’aria. Si muore di sussulti. Il tempo dipende dalla resistenza individuale e dal fatto che nei polmoni vi sia solo elio.

Sembra che la tecnica dell’elio sia stata messa a punto negli Stati Uniti, da Derek Humphry, membro del Final Exit-Network, che nel 1992 diffuse un manuale contenente le indicazioni per suicidarsi (Eutanasia: uscita di sicurezza), per poi pubblicare il volume intitolato Liberi di morire, nel quale scrive che il trascorrere degli anni aiuterà la causa della libertà del morire: "Con lo scomparire di quelle generazioni che hanno attraversato le barbarie del ventesimo secolo, le sue due guerre mondiali, le bombe atomiche, i genocidi, le devastazioni ambientali e i suoi stili di vita irrispettosi dell’ambiente, le nuove generazioni saranno capaci di guardare alle decisioni sulla morte con più buon senso e compassione". Il suicidio come suprema forma di libertà.

Il suicidio come “atto coraggioso”, “eroico”, come si è detto e scritto due anni or sono del caso di Roberta Tatafiore e, piu’ recentemente, di Mario Monicelli. Disporre della propria vita, per molti, equivale a disporre di un kleenex per soffiarsi il naso. E lo insegnano, anche.