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ETICA E MEDIA

Quando la pubblicità ripudia la pornografia

Un gruppo di inserzionisti punta su una filosofia promozionale che non riduce l'uomo alle sue pulsioni ed è economicamente più redditizia.

Attualità 01_04_2011
pubblicità
Siamo quotidianamente bombardati da messaggi pubblicitari piuttosto ripetitivi, spesso a sfondo sessuale, costruiti per vellicare le nostre pulsioni mediante la strumentalizzano del corpo umano, specialmente femminile. È perciò rincuorante rilevare che sta emergendo una tendenza di segno diverso, che ha dato luogo lunedì 28 marzo ad un primo convegno nazionale, svoltosi a Milano presso la sede di Assolombarda. Il convegno "Human Satisfaction – Impresa, comunicazione, sviluppo", organizzato da UniOne (che è una società di consulenza per la comunicazione d’impresa), è stato lo scenario per un proficuo confronto tra imprenditori, manager, operatori e studiosi di comunicazione, sociologi e filosofi (il sottoscritto).

Human satisfaction è il concetto coniato dal vulcanico Marzio Bonferroni che – da anni, coraggiosamente, attirandosi l’ostilità delle agenzie tradizionali della pubblicità e scontrandosi con il conservatorismo di molti imprenditori – promuove una relazione con il destinatario inteso come consum-attore, invece che consumatore, come persona e non come mero cliente da condizionare ad un acquisto il più possibile compulsivo mediante il meccanismo stimolo-risposta. Per Bonferroni ed i suo collaboratori il pubblico non è un gregge di consumatori e non ha solo esigenze emotive: tutti noi, in quanto persone, pensiamo ed agiamo non soltanto in base a stimoli emozionali, ma anche in forza di convincimenti razionali e di scelte etiche.

Passare rivoluzionariamente dalla Customer satisfaction (soddisfazione del cliente) alla Human satisfaction (soddisfazione dell’uomo-persona), significa svincolarsi da una visione antropologico-filosofica utilitarista, che ha prodotto molti esiti nefasti non solo nel mondo finanziario, bensì anche nei rapporti intersoggettivi, e che è causa ed effetto di un modo di trattare le persone come cose da consumare come combustibile emozionale. L’uomo è al contrario un essere relazionale, come insegna già Aristotele, che ha certamente una sfera emotiva ed edonistica, ma è anche provvisto di ragione e volontà, in forza delle quali coltiva e persegue sia il piacere, sia la soddisfazione emotiva, sia l’efficienza, sia la realizzazione di obiettivi etici. Come ha esemplificato al convegno il dottor Giuseppe Romano, accanto agli obiettivi emotivi (come sentirsi amato e capito, sentirsi indipendente, sentirsi in grado di prendersi cura di sé stesso, sentire di aver il controllo della situazione, sentirsi libero, avventuroso, provare esperienze eccitanti e di rilievo, ecc.) l’uomo persegue anche obiettivi etici, come essere coerente con i propri principi, avere un’integrità morale, assumersi delle responsabilità, mantenere fede alle promesse, essere un buon amico, essere premuroso verso gli altri, verso i deboli e gli indifesi, preoccuparsi del loro benessere, ecc.

La prima parte del convegno è stata dedicata alla presentazione della metodologia e di alcuni casi di aziende che ne hanno adottato lo spirito: Sanofi Aventis, Sas, Karcher, Le Fablier, Plef. La seconda parte del convegno si è svolta in forma di tavola rotonda, coordinata dal professor Marco Vitale, su alcuni possibili risvolti della Human Satisfaction, considerati da discipline differenti, dalla filosofia alla sociologia alle relazioni pubbliche. È stato davvero di buon auspicio ascoltare diversi imprenditori ed amministratori delegati di imprese di grande rilievo convergere nella direzione di una comunicazione pubblicitaria che sia insieme rispettosa della dignità umana e corrispondente alle diverse esigenze dell’uomo. La filosofia di fondo della Human satisfaction, infatti, rispecchia e rispetta l’essere dell’uomo, evitando erronei e nefasti dualismi di vario genere, i quali separano dimensioni dell’umano che invece sono compenetrate: per esempio contrasta il dualismo tra emozioni e ragione e quello tra corpo e spirito, ed evita altresì quel riduzionismo emozionalista che riduce l’uomo ad un mero fascio di emozioni.

Ora, vellicare le pulsioni
dei fruitori, mercificare la donna e talvolta anche l’uomo rendendoli meri oggetti e strumenti per vendere è molto grave, perché, come dice (per esempio) Kant, l’essere umano non deve essere mai trattato come mezzo, bensì sempre come fine in se stesso. Ma quello che emerge da alcuni anni – e che è stato riconfermato al convegno – è che questo tipo di pubblicità ormai consegue ben pochi risultati di vendita, quando non scarsissimi, a fronte di investimenti molto onerosi. Ad esempio, è importante segnalare che la pornografia non fa vendere e, in certi casi, è addirittura un boomerang. Perlomeno così dice l’Economist, che ha riferito i risultati delle ricerche condotte dal professor Adrian Furnham (University College, London).

Da un esperimento sociologico sono infatti emersi due risultati. Un primo risultato, che bisognerebbe far conoscere agli inserzionisti, è stato che la presenza di immagini sensuali nelle pubblicità aiuta ad imprimere nella memoria dello spettatore le immagini che vengono proiettate, ma non comporta una differenza nella capacità di ricordare un marchio o un prodotto: insomma, una pubblicità soltanto emozionale rende meno di quanto si pensi. Un secondo risultato è stato che, quando una pubblicità interrompe un programma o un film che ha dei contenuti sensuali, lo spettatore ricorda meno il marchio pubblicizzato, rispetto a quanto riesca a ricordare se la pubblicità interrompe un programma non sensuale: infatti, le immagini conturbanti provocano una forte eccitazione, perciò distraggono la mente dello spettatore, che nota ben poco la marca ed il prodotto che vengono illustrati durante lo spot. Così, visto che i motivi etici non scalfiscono tanti inserzionisti cinici e moralmente spregiudicati, bisognerebbe far loro sapere che è controproducente finanziare spot che vanno in onda durante questo tipo di film e prodotti.

D’altra parte, qualora qualcuno non sia convinto da queste ricerche, valga per lui almeno un argomento antropologico: una pubblicità emozionale e sensuale può generare risultati solo nel breve termine, cioè dei risultati che cessano poco dopo la fine di una campagna pubblicitaria, perché le emozioni sono brevi e rapidamente sostituite da quelle successive. Invece, una pubblicità che si rivolge alla ragione e viene incontro agli ideali etici del soggetto è più duratura nei suoi risultati. Quanto ai potenziali di profitto di una comunicazione pubblicitaria che tenga conto delle esigenze etiche dei destinatari, vale la pena citare un’indagine (citata in L. Becchetti - M. Costantino, Il ruolo dei cittadini e delle imprese per una felicità economicamente sostenibile, in P. Grasselli - M. Meschini, Economia e persona, Vita e Pensiero, 2007, p. 113): dal 1999 al 2001 in Europa c’è stata una crescita dal 36 % al 62 % della percentuale dei consumatori che hanno dichiarato di essere disposti a pagare un maggior prezzo per i prodotti o di essere disposti ad accettare una minor qualità, pur di acquistare prodotti di imprese socialmente responsabili. E, sempre secondo la stessa indagine, nel 2001 i possessori americani di azioni che inserivano motivazioni etiche nelle decisione di acquisto/vendita di azioni erano più di un quarto. Anche gli investimenti nella «finanza etica» sono decisamente aumentati: dal 1995 al 2003 sono cresciuti del 40 % rispetto ai fondi pensione tradizionali.

Ora, siccome sono gli inserzionisti
che oggigiorno determinano molta parte del palinsesto televisivo e in generale dei contenuti dei media, rendendoli possibili con il finanziamento che proviene appunto dalla pubblicità, se giungessero loro queste considerazioni e questi dati non sarebbe impossibile promuovere una rilevante inversione di tendenza, una “bonificazione morale” dei prodotti mediatici. Anche se fosse motivata da ragioni economiche, essa sarebbe comunque straordinariamente importante.