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ELEZIONI ANTICIPATE?

Quando anche la Festa dell'Unità divide il Pd

E' un paradosso, è vero, ma la Festa dell'Unità a Milano ha causato uno scontro al caloro bianco fra Renzi e i suoi oppositori interni. Al punto che si ricomincia a parlare di elezioni anticipate, se non dovesse passare la riforma del Senato. Uno scenario possibile, anche se il presidente Mattarella tenderebbe a evitarlo.

Politica 31_08_2015
Matteo Renzi alla Festa dell'Unità

Può sembrare un paradosso, ma la Festa dell’Unità, in corso a Milano, rischia di diventare la pietra tombale del Pd e perfino della legislatura. Dal palco di quella kermesse, infatti, sono partite bordate incrociate tra renziani e antirenziani, che confermano la faida senza esclusione di colpi tra vecchia guardia e rottamatori e che scavano un solco sempre più profondo tra chi nel Pd sostiene il segretario e chi vorrebbe mandare a casa lui e il governo da lui guidato.

Come ha scritto Claudio Cerasa nei giorni scorsi in un editoriale sul Foglio, gli scenari per l’immediato futuro sono diversi e molti di loro si intrecciano indissolubilmente tra loro. Potrebbe essere una concatenazione di eventi a determinare il prosieguo del cammino delle riforme e quindi della vita del governo in carica o la sua caduta e l’immediato ritorno alle urne, già in un ipotetico “election day” nella primavera prossima, con accorpamento di elezioni amministrative ed elezioni politiche.

Renzi in verità appare già proiettato verso le urne anticipate e ha alzato i toni dello scontro con i nemici interni e con Salvini e Grillo. Il tour dei cento teatri in giro per l’Italia annunciata dal premier a Pesaro qualche giorno fa ricorda precedenti mobilitazioni dell’ex sindaco di Firenze nell’imminenza di sfide importanti ed è un segnale inequivocabile del fatto che lui non intenda accontentarsi nei prossimi mesi di governare da Palazzo Chigi, ma voglia fortissimamente girare in lungo e in largo l’Italia per prepararsi a chiedere il voto agli italiani. 

L’ipotesi più probabile al momento resta quella della prosecuzione, sia pure tra mille fibrillazioni, dell’attuale legislatura. Tantissimi deputati e senatori, che sanno di non avere alcuna chance di rielezione e si aggrappano con le unghie e con i denti ai loro scranni, voterebbero qualsiasi cosa proposta dal premier pur di non andare prematuramente a casa. Ma se l’esecutivo andasse a sbattere sulle riforme in Senato, soprattutto quella del bicameralismo perfetto, nessuna eventualità sarebbe esclusa, neppure quella dello scioglimento anticipato delle Camere.

Qualcuno obietta che Mattarella difficilmente accetterebbe gli eventuali diktat del premier e, al contrario, cercherebbe altre soluzioni governative in Parlamento per evitare di mandare il Paese ad elezioni anticipate. Ci sono anche indizi di questo tipo, a pensarci bene. Anzitutto l’imminente Giubileo, che sconsiglia crisi al buio con possibile instabilità governativa. Poi la legge di stabilità alle porte, che dovrebbe blindare quei timidi segnali di ripresa economica che in parte si percepiscono. Inoltre, in caso di voto nel 2016, gli italiani si cimenterebbero con una legge elettorale “strabica”, con il “consultellum” al Senato e l’italicum alla Camera. E dalle urne potrebbero uscire maggioranze diverse, o meglio il Pd potrebbe conquistare il premio di maggioranza alla Camera, ma non avere i numeri al Senato, e quindi essere ancora una volta costretto a fare alleanze con l’opposizione pur di riuscire a varare le riforme saltate nell’attuale legislatura.

Ed è per questo che non si esclude, in caso di pantano a settembre a Palazzo Madama sulla riforma del Senato, una crisi pilotata dal Quirinale: Renzi si dimette, Mattarella gli riaffida l’incarico per un Renzi-bis finalizzato all’approvazione delle riforme con un mandato ben preciso e limitato, dopo di che si ritorna alle urne, anche prima del 2018. Il compito di “pontiere” potrebbe essere svolto direttamente da Mattarella o dal Presidente del Senato, Pietro Grasso, attraverso un mandato esplorativo.

In base a questo schema, o si prosegue con le riforme o si vota nel 2016 o interviene il Quirinale a mediare. Ma non va escluso neppure un altro scenario: Renzi riesce, anche attraverso maggioranze variabili, a far passare definitivamente la riforma costituzionale entro gennaio. A quel punto il referendum confermativo si terrebbe nella primavera dell’anno prossimo o al più tardi in autunno e, subito dopo, essendo peraltro scaduta la “clausola di salvaguardia” dell’Italicum, Renzi potrebbe da vincitore forzare la mano e quasi “imporre” al Colle lo scioglimento anticipato con elezioni politiche a febbraio 2017.

Questo sarebbe il massimo risultato possibile per Renzi, che non avrebbe rivali per la riconferma a Palazzo Chigi, tanto più che, prima della resa dei conti nel congresso Pd del 2017, potrebbe fare piazza pulita, nelle liste elettorali, della baldanzosa e a lui ostile minoranza dem, che ha sempre mirato a farlo fuori, considerandolo un “incidente di percorso” da superare al più presto.

Ecco perché il futuro del premier dipende soprattutto dal superamento delle forche caudine del Senato sul ddl Boschi, obiettivo che cercherà di perseguire anche con accordi col centrodestra.

Due variabili sulla strada di Renzi, oltre quella della compattezza o meno della sua opposizione interna, sono l’unità del centrodestra e le scelte che farà Area popolare. Berlusconi attende per metà settembre il pronunciamento della Corte europea sulla sua ineleggibilità e sull’applicabilità della legge Severino. Nel caso arrivasse la sua riabilitazione da Strasburgo, l’ex Cavaliere potrebbe, nonostante l’età avanzata, contendere a Salvini la leadership del centrodestra.

Per quanto riguarda, invece Area popolare, si vocifera di una spaccatura tra l’area di Alfano e del ministro Lorenzin, pronta a traslocare nel centrosinistra in cambio di venti seggi sicuri nel prossimo Parlamento, e l’area di Lupi e Formigoni, desiderosa di contribuire alla rinascita del centrodestra, purchè non a trazione leghista. La fuoriuscita dal Nuovo centrodestra dell’ex ministro Nunzia De Girolamo sarebbe l’ennesima avvisaglia di uno smottamento progressivo del partito fondato dall’attuale ministro dell’interno.