Quale crisi climatica? Meglio investire sull'adattamento
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In assenza di una definizione scientifica stringente di "crisi climatica", serve elaborare nuovi modelli. Obiettivamente non ci sono ragioni per essere catastrofisti, dati alla mano. E se si deve investire, meglio investire nella manutenzione del territorio.
Bill Gates ha di recente affermato che il cambiamento climatico non costituisce una crisi esistenziale per l’umanità e che pur essendo un problema rilevante lo è in ogni caso meno rispetto a fame e povertà. Quella di Gates è una testimonianza importante ma non certo sufficiente ad avvalorare ovvero a smentire le preoccupazioni sulla scorta delle quali migliaia di amministrazioni comunali di tutto il pianeta (compresa la città di Milano in cui gli autori vivono) hanno attivato dei “gabinetti di crisi climatica”. Per andare dunque oltre le singole prese di posizione, chi scrive è partito dall’analisi del concetto stesso di "crisi climatica", evidenziandone le profonde radici storico-culturali e stigmatizzando l’uso retorico che in anni recenti ne è stato fatto dai media e dalla politica, che sono arrivati ad inculcare la percezione apocalittica della variabilità e del cambiamento climatico.
Il problema di fondo rispetto a una tale temperie è che il concetto di crisi climatica, in assenza di una definizione stringente, è destinato a rimanere uno strumento nelle mani di coloro che per fini più o meno nobili alimentano interpretazioni allarmistiche o comunque irrealistiche. Proprio per cercare di sfuggire a una simile eventualità, oltre un anno fa ci siamo lanciati nell’impegnativo lavoro di stesura di un articolo scientifico che, a seguito di un lungo processo di revisione tra pari, è finalmente stato pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Hazards. In tale articolo, dal titolo Quantifying the climate crisis: a data-driven framework using response indicators for evidence-based adaptation policies, proponiamo di giungere a una definizione stringente di "crisi climatica" basata su un set di indicatori di risposta (Response INDicators - RIND) basati sulle forzanti climatiche (Climate Impact Drivers - CID) definite nell’ultimo rapporto AR6 dell’IPCC.
Con ciò proponiamo in sostanza di seguire la strada già da tempo adottata a livello mondiale in campo economico: un Paese è ritenuto in “crisi economica” sulla base della valutazione dell’andamento di una serie di indicatori di performance dell’economia. Più nello specifico si parla di recessione tecnica a fronte di un calo del PIL per due trimestri consecutivi mentre si parla di crisi economica se tale situazione si protrae nel tempo coinvolgendo indicatori economici come occupazione, reddito, consumi e investimenti.
Nel caso degli indicatori di “crisi climatica” (43 in tutto) da noi utilizzati, le tendenze in atto sono state valutate applicando il test di Mann Kendall a serie storiche di congrua lunghezza allo scopo di valutare la significatività statistica della loro tendenza nel tempo. Da tale analisi è emerso che la maggior parte degli indicatori non mostra tendenze statisticamente significative al peggioramento.
Dobbiamo sottolineare che le serie temporali degli indicatori di impatto spesso portano la firma dell'adattamento e che altri fattori umani tendono a prevalere sui fattori climatici.
Ad esempio:
- l'influenza del clima sui conflitti è considerata minore rispetto ai principali fattori di conflitto;
- l'impatto umano sulle malattie trasmesse da vettori potrebbe essere più significativo del cambiamento climatico, come dimostrato nel XX secolo dal calo dell'endemicità e della mortalità per malaria nonostante l'aumento delle temperature globali;
- la riduzione dei decessi causati da eventi meteorologici estremi può essere in parte, forse per la maggior parte, attribuita al miglioramento dei sistemi di protezione civile.
Questi esempi dimostrano che l'adattamento si rivela spesso più efficace della mitigazione.
Un altro esempio di influenza antropica non correlata al clima riguarda gli incendi boschivi: molti studi segnalano un aumento delle aree bruciate legato al riscaldamento climatico negli ultimi decenni in gran parte del Nord America. Tuttavia, negli ultimi decenni il tasso di siti incendiati negli Stati Uniti è stato molto inferiore ai tassi storici nella maggior parte del continente, una disparità attribuita all'aggressiva soppressione degli incendi e all'interruzione delle pratiche di combustione tradizionali. Inoltre, le tendenze globali della deforestazione si inseriscono in modelli complessi di utilizzo del suolo in cui il clima gioca un ruolo secondario; più specificamente, i dati di telerilevamento rivelano un aumento delle aree forestali alle latitudini medio-alte nell'emisfero settentrionale, mentre la deforestazione guidata dall'espansione dell'agricoltura intensiva si osserva nelle regioni subtropicali.
Poiché la maggior parte degli indicatori da noi analizzati non mostra segni di deterioramento, la nostra opinione generale è che la "crisi climatica", come descritta oggi da molti media, non sia evidente. Questo è importante sottolinearlo, poiché suggerisce che abbiamo ancora tempo sufficiente per sviluppare politiche di adattamento efficaci e sostenibili volte a migliorare la resilienza dei sistemi socio-economici e ambientali. Ad esempio, nel caso della siccità, si può prevedere sia adottando tecniche di agricoltura conservativa, che ottimizzano lo sfruttamento delle risorse idriche durante i periodi di scarsità sia promuovendo l’uso dell’irrigazione tramite la creazione di bacini idrici artificiali, che possono anche contribuire alla produzione di energia rinnovabile e alla mitigazione e prevenzione delle inondazioni. Nel caso invece degli incendi boschivi, le misure di adattamento includono la gestione razionale della lettiera forestale, l'istituzione di fasce tagliafuoco per prevenire la propagazione degli incendi e il mantenimento di adeguati servizi antincendio.
Ciononostante, rimane estremamente importante migliorare e standardizzare le attività di monitoraggio e sviluppare strategie di adattamento basate su dati di alta qualità e prodotti con regolarità. Promuovere l'innovazione è essenziale per mitigare gli effetti del cambiamento climatico e affrontarne le conseguenze per mezzo di razionali strategie di adattamento. Piuttosto che inquadrare il problema esclusivamente come una minaccia, questo approccio enfatizza il potenziale insito nel progresso tecnologico e sistemico per creare soluzioni sostenibili. Le politiche dovrebbero includere finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo in settori come l'accumulo di energia rinnovabile e l'agricoltura sostenibile. Incoraggiando la collaborazione tra governi, industrie e mondo accademico, questo approccio mira ad aprire nuove strade anche in termini di sostenibilità sociale. L'enfasi sull'innovazione sposta la narrazione dall'urgenza all'opportunità, evidenziando il potenziale di progresso insito nelle scelte adottate.
La proposta da noi formulata è pertanto quella di aggiornare annualmente tali indicatori (o altri, da scegliere comunque su base razionale) e di divulgarli alla collettività allo scopo di favorire la scelta delle priorità da parte dei decisori politici che operano ai diversi livelli (dai comuni alle entità sovrannazionali). La speranza è che ciò dovrebbe favorire un approccio equilibrato che integri strategie di mitigazione e adattamento per affrontare gli effetti negativi della variabilità e del cambiamento climatico sull’esempio di quanto fecero gli USA negli anni ’30 del XX secolo con la politica del New Deal voluta dal presidente Franklin Delano Roosevelt di fronte alla crisi climatica indotta dalla mega-siccità nota come Dust Bowl e che produsse la desertificazione di vaste aree del Paese.
Installare pannelli fotovoltaici o utilizzare auto elettriche può essere utile nell’ottica della transizione energetica, ma se si vogliono evitare tragedie e disastri quali quelli che hanno colpito l’Emilia Romagna, è assai più efficace investire nella cura e manutenzione del territorio.

