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CASO ABBAS

Processo Saman. Delitto "d'onore" nell'islam italiano

Processo d'appello per i genitori di Saman Abbas, la ragazza pakistana, residente in Italia, uccisa dai genitori nel 2021 perché non voleva sposare l'uomo da loro scelto. Una finestra sull'islam in Italia.

Libertà religiosa 22_03_2025
Nazia Abbas, madre di Saman (La Presse)

È in corso il processo d’appello ai genitori di Saman Abbas, la ragazza di origine pakistana dal 2016 residente con la famiglia a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, che nel 2021 è stata uccisa perché rifiutava un matrimonio combinato con un cugino. La madre, Nazia Shaheen, e il padre, Shabbar Abbas, in primo grado sono stati condannati all’ergastolo e uno zio, Danish Hasnain,  a 14 anni di carcere. Due cugini sono stati assolti. Come si ricorderà, la ragazza era risultata scomparsa dal 1° maggio 2021. Pochi giorni dopo i suoi genitori erano tornati in Pakistan dove in seguito sono stati individuati, arrestati ed estradati: il padre nel 2023 e la madre lo scorso anno. I cugini erano scappati uno in Francia e uno in Spagna.

La versione dei parenti secondo cui Saman se ne era andata di sua volontà e forse viveva da qualche parte in un paese europeo è stata definitivamente smentita quando nel 2023, grazie alle indicazioni fornite dallo zio, ne è stato rinvenuto il cadavere, sepolto non lontano dalla cascina dove aveva vissuto con i genitori. È stato accertato che la notte del 30 aprile, quando Saman è stata uccisa, tutti i famigliari erano presenti. Lo conferma il fratello minore di Saman, testimone chiave. Ma tutti negano ogni responsabilità e si accusano a vicenda. Lo zio ha indicato come mandanti i genitori e sostiene di non sapere chi ha ucciso la nipote. Il padre accusa lo zio. «Dal momento in cui l’ho scoperto – dice adesso – provo un dolore che mi accompagnerà per tutta la vita». «L’ho vista allontanarsi, poi è sparita nel buio. Non sono stata io a ucciderla – racconta la madre – se avessi visto qualcosa, mi sarei battuta per fermare qualsiasi aggressione, sono una madre».

Sono accusati di un grave crimine, si proclamano innocenti per evitare una pena severa. È quello che fanno di solito le persone che affrontano un processo. Ma qualcuno di loro ha ucciso Saman, quella sera. Gli altri lo hanno aiutato oppure hanno assistito o hanno voltato le spalle. Nessuno si è “battuto” per impedirlo. Se qualcuno lo avesse fatto, forse lei sarebbe ancora viva.

Al là di ogni dubbio, quello di Saman è stato un omicidio d’onore. La ricostruzione di quanto è accaduto è simile a quella di tanti omicidi d’onore commessi nel mondo, con l’approvazione e il plauso di parenti e amici. Si chiamano d’onore perché, nelle intenzioni di chi li commette, servono a restituire rispetto a una famiglia che lo ha perso agli occhi della propria comunità di riferimento a causa di qualche azione riprovevole di un suo componente. Da questa prospettiva, gli autori dell’omicidio sono le vittime – hanno subito un danno – non chi viene ucciso, colpevole di essersi comportato male.

Saman non è la prima donna uccisa dai famigliari in Italia per onore. Non sappiamo quante altre invece si siano ribellate, ma alla fine abbiano accettato di sposare l’uomo scelto dai genitori, secondo una istituzione – il matrimonio combinato – precedente all’islam e che l’islam ha accettato. Non sappiamo nemmeno quante donne immigrate o nate in Italia in famiglie di immigrati, non solo musulmane, subiscano limitazioni anche gravi delle loro libertà personali, e quanti uomini, prima di assumere lo status di capifamiglia.

Non lo sappiamo e tanto altro ci sfugge degli immigrati musulmani in Italia. Molti subiscono la pressione e le suggestioni dello stile di vita europeo, occidentale e inoltre una percentuale non quantificabile, ma certo consistente, e si direbbe in crescita, di fedeli sono in qualche misura secolarizzati, proprio come tanti cristiani: rispettano il digiuno nel mese di Ramadan, celebrano le principali ricorrenze religiose, ma non sempre frequentano la moschea il venerdì, non seguono rigorosamente i cinque pilastri della fede. Ci sono donne che smettono il velo islamico, o lo indossano solo in certe occasioni, e uomini che si concedono bevande alcooliche. Ci sono famiglie che allentano il controllo sui figli e rinunciano a deciderne il futuro. Altri, come i parenti di Saman, vivono in comunità chiuse nelle quali si applicano le prescrizioni della legge coranica, persino accentuandole e avvicinandosi a posizioni integraliste. A Monfalcone un gruppo di musulmani vogliono presentare un candidato sindaco con una lista composta solo da loro. Nel programma elettorale non lo dicono, ma agli inviati di una emittente televisiva hanno spiegato che il progetto è acquisire gradualmente potere politico per portare a Roma la richiesta di accettare le norme islamiche, la poliginia ad esempio.

Che cosa sarà l’islam in Italia, come sarà praticato, che forme assumerà è difficile prevederlo. Ma è certo che a  deciderlo saranno i giovani, le seconde e terze generazioni nate in famiglie islamiche immigrate. Sappiamo che molti ci sfidano, ci provocano, odiano l’Occidente eppure al tempo stesso provano insofferenza, disagio, imbarazzo per la società patriarcale, autoritaria dei loro genitori e forse anche per l’islam stesso, per i limiti che pone alle libertà personali e per la sua inadeguatezza ad affrontare le sfide attuali, a dare risposte e vie praticabili di condotta.

Il fratello di Saman non l’avrebbe uccisa e forse neanche i suoi cugini. Ma il rischio è che il nostro paese si riempia di persone disadattate, che rigettano entrambi i mondi: l’Occidente e l’islam.