Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Francesco Antonio Fasani a cura di Ermes Dovico
L'INTERVISTA

"Processare Salvini? Crisi tra Giustizia e sovranità popolare"

"Salvini a processo? Evitare un conflitto fra Giustizia e Sovranità popolare". Il giudice Mario Cicala mette in guardia la magistratura sullo scontro tra toghe e ministro degli Interni: "Siamo di fronte a qualcosa di nuovo: una lacerazione con il tessuto connettivo del Paese". Come uscirne? "Il Parlamento può rifiutare di procedere perché ha agito nell'interesse preminente dello Stato". Un precedente c'è e riguarda D'Alema sui bombardamenti in Serbia. La posta in gioco è la politica futura in materia di immigrazione. 

Attualità 15_02_2019

“Siamo di fronte ad un conflitto potenzialmente grave che presenta profili del tutto nuovi. Appare quindi indispensabile incanalare nell’ambito delle procedure costituzionali simile potenziale ed inedito conflitto fra la magistratura e una diffusa volontà popolare espressa - come proprio la Costituzione stabilisce - dal voto elettorale”. Sono i punti salienti di un articolo pubblicato su il diritto vivente, periodico che fa capo a Magistratura indipendente, la corrente delle toghe che può essere posta come contraltare di Magistratura democratica. L’argomento è il caso Diciotti e in particolare la richiesta a procedere del Tribunale dei Ministri di Catania nei confronti del ministro Salvini, accusato dalla Procura di sequestro di persona. Richiesta che ha già ottenuto un primo stop con l’orientamento proposto dal senatore Maurizio Gasparri, che della commissione del Senato per le autorizzazioni a procedere è presidente.

A scrivere l’articolo è Mario Cicala (in foto), il direttore della rivista, già presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, oltre che componente del Csm. Secondo il togato il potenziale scontro tra le “procure” e il ministro Salvini delinea una novità pericolosa che non avevamo avuto neppure durante la stagione di Tangentopoli e dei governi Berlusconi, perennemente posti sotto la scure della giustizia. Un’incrinatura tra il tessuto connettivo del Paese e la stessa magistratura, nella quale a farne le spese è la politica come arte del decidere su mandato popolare. Perché per la prima volta assistiamo a una rottura tra il sentimento popolare, che è molto vicino alla battaglia di Salvini sui migranti e gli organi della giustizia. Per comprendere meglio la portata di questo scontro, la Nuova BQ ha intervistato proprio l’ex magistrato.

Giudice Cicala, crede che questo conflitto, l'ennesimo, tra politica e giudici possa incrinare l'equilibrio dei poteri sancito dalla Costituzione?
Nel mio editoriale pubblicato sulla rivista on line Il diritto vivente, ho cercato di porre in luce come questa vicenda, certo difficile da gestire sia sul piano politico che su quello giudiziario, possa essere affrontata senza lacerare ulteriormente il tessuto connettivo del Paese, evitando un nuovo conflitto fra Giustizia e Sovranità popolare. Grazie a Dio - almeno in questo caso - è infatti sufficiente applicare la Costituzione.

Ma cosa esattamente prevede la Costituzione?
La norma costituzionale distingue con chiarezza compiti e responsabilità: spetta alla Procura della Repubblica e al Tribunale stabilire se vi siano elementi per contestare al ministro una ipotesi di reato (e, in caso di rilascio della autorizzazione, a giudicare se il reato vi sia); spetta al Parlamento stabilire, con una decisione “insindacabile” cioè non impugnabile avanti alla Corte Costituzionale, se la procedura giudiziaria debba o meno essere arrestata in quanto l’inquisito ha agito a “tutela di un interesse dello Stato o per il perseguimento di un interesse pubblico”.

E come stanno le cose in questo caso?
E proprio la chiarezza della norma rende pretestuosa l’ipotesi di un conflitto fra Magistratura e Parlamento: il rifiuto di autorizzazione a procedere non comporta una smentita dell’organo giudiziario o una implicita affermazione della esistenza di un perverso “fumus persecutionis”. Il Parlamento prende cioè atto di una valutazione espressa dal Tribunale e, senza contestarla o smentirla (ma neanche confermarla), dichiara che quel processo non si farà per esigenze politiche, che si collocano su un piano diverso rispetto alla stretta valutazione giuridica dei fatti.

Nella sua esperienza di giurista ricorda qualche precedente?
E’ accaduto che nell’aprile del 1999, ai tempi della presidenza D’Alema, aerei della Nato abbiano bombardato la città di Belgrado provocando la morte, fra gli altri, di due giornalisti che si trovavano nella sede della televisione locale, cioè di una struttura - a detta dei colpiti - palesemente “civile” e non “militare”. I parenti dei caduti si sono rivolti al giudice italiano chiedendo un risarcimento del danno, avendo il nostro Paese concorso a cagionare la morte dei due giornalisti, sia in quanto membro della NATO, sia fornendo un indispensabile appoggio logistico e di fuoco all’operazione denominata “Forza Alleata”, che è stata ritenuta una vera e propria “guerra” (sia pure non dichiarata con il voto parlamentare come previsto dall’art. 78 Cost.).

Come andò a finire?
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 8157 del 2002 hanno dichiarato inammissibile la richiesta in quanto “la scelta di una modalità di conduzione delle ostilità rientra tra gli atti di Governo; manifestazione di una funzione politica che la Costituzione attribuisce ad un organo costituzionale”, cioè al Governo posto che la sentenza non accenna ad un intervento del Parlamento. E le Sezioni Unite aggiunsero: “Rispetto ad atti di questo tipo nessun giudice ha potere di sindacato circa il modo in cui la funzione è stata esercitata”.

Una preminenza degli atti politici su quelli giudiziari?
Esistono secondo questa sentenza, atti politici di tale rilievo e di tale natura da sfuggire alle valutazioni giudiziarie; quindi non vi è nulla di scandaloso se il Parlamento, espressione della volontà popolare, accerta che determinate attività di governo non possono essere investite da un processo penale perché il Governo, in forma collegiale o individuale, ha agito a tutela di “un interesse dello Stato o per il perseguimento di un interesse pubblico”.

La sua appare una risposta edulcorata che non coglie la profonda lacerazione che divide il popolo italiano…
Non mi sfugge che siamo di fonte ad un contrasto – se possibile - ancor più profondo di quello che ha coinvolto la figura di Silvio Berlusconi, come ho scritto nel mio editoriale. C’è una incisiva divergenza ideale fra coloro che approvano la “linea Salvini” e quindi apprezzano la richiesta assolutoria presentata dalla Procura di Catania, e quelli che osteggiano la politica del Governo sul tema “immigrazione” e quindi sarebbero lieti di vederla demolita per via giudiziaria.

In un modo o nell’altro è un conflitto che andrà risolto.
Infatti, quanto più forte è il conflitto tanto più è necessario aggrapparsi a procedure che consentano se non di risolverlo, almeno di assumere chiare e coerenti decisioni. Ed a questo fine è indispensabile che la giurisdizione si sforzi di apparire e sia “terza”, cioè non schierata, libera da pregiudizi ideologici, non influenzata da prese di posizione delle “correnti” che operano al suo interno.

Vi saranno però delle importanti conseguenze?
Mi pare ovvio che se il Parlamento autorizza il processo, implicitamente esprime l’opinione che il Ministro (ed il Governo) non hanno perseguito un interesse pubblico rilevante; e simile “voto di sfiducia”, può avere effetti incisivi sull’assetto politico generale e sulla politica italiana in materia di immigrazione.