Primo maggio: mani giunte, non pugni levati
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Soffrire, offrire e amare: come il lavoro può diventare un mezzo di santificazione, trasformando la fatica in passione. Con lo sguardo rivolto all'eternità.
Labor. “Lavoro” trova il suo etimo in “labor” che in latino significa “pena”, “sofferenza”, “fatica”. Trabajo, travail. Due termini, il primo spagnolo e il secondo francese, che tradotti in italiano significano “lavoro”. E in quei termini riecheggia la parola “travaglio”. Di nuovo, anche per gli spagnoli e i francesi, il lavoro è fatica.
Perché il lavoro si associa alla fatica? Perché la fatica, la pena, la sofferenza sono i primi lasciti del peccato originale. Da allora diventeranno coessenziali alla nostra decaduta antropologia. Il sudore della fronte da quel momento sarà nostro compagno di viaggio sgradito e non certo invitato. Ricordiamo cosa Dio predisse all’uomo un secondo dopo la sua caduta, mentre malediceva il suolo: «Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Gn 3, 17-19). Notare: nella vita non c’è spazio se non per la sofferenza causata da un lavoro inesausto. E poi si muore. La parabola terribile di noi viandanti è gravata dal suo esordio al suo epilogo solo da una faticosa pena. Viene da domandarsi in modo retorico cosa sia il peccato agli occhi di Dio.
Come ci ha salvato Cristo? Con i patimenti sofferti e offerti in croce. Come ci salveremo noi? Partecipando a quelle sofferenze. Ecco perché, come insegna la Chiesa, anche il lavoro santifica. Il lavoro da condanna a riscatto. Gesù negli anni del nascondimento usava al lavoro molti di quegli strumenti della sua futura passione: il martello, i chiodi, i pali di legno. Da lì nasce la santificazione del lavoro. E chissà, mentre lavorava nella bottega del padre, quali pensieri guizzavano nella sua testa, come neri presagi, quando incrociava due assi e le inchiodava tra loro.
Il lavoro come pena, ma anche come passione. Anche qui la genesi è in Cristo e in Cristo crocefisso. Il termine passione significa sia patire, sia ardore d’amore. Mentre Gesù soffriva, amava quella sofferenza, ma non come il masochista, ma come l’amante che prova gusto nel patire al posto dell’amato, come l’amico che paga al posto del suo amico.
E anche noi dovremmo far coincidere lavoro e passione. Un lavoro da amare perché ci santifica – meta tanto chiara in testa quanto difficile nella prassi – e perché ci realizza, perché mentre impersoniamo l’homo faber rispecchiamo in noi, seppur in modo fosco, una della infinite perfezioni di Dio allorchè, nella sua unica settimana lavorativa, fece il mondo. Perché ogni lavoro, seppur impropriamente, crea qualcosa al di fuori di noi e dentro di noi. Ci ricrea, ossia, se compiuto onestamente, restituisce noi a noi medesimi e ancor migliori, ci fa diventare sempre più noi stessi, più aderenti alla nostra identità, a quell’Andrea, a quel Riccardo a quella Stefania che sono in mente Dei. E dunque passione come intima gioia della fatica perché proficua.
E allora, in questo primo maggio, niente pugni levati, ma solo mani giunte, perché il suolo amaro dell’esistenza, arato dal lavoro quotidiano, possa essere preludio delle dolcezze del Cielo.
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