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LA BEATIFICAZIONE DI DON LENZINI

Preti uccisi dai partigiani, Anpi ancora negazionista

Con la beatificazione di don Luigi Lenzini, sono già due i martiri in odium fidei del Triangolo rosso che la Chiesa eleva agli altari. Ma le parole negazioniste dell'Anpi riportano le lancette dell'orologio indietro di 70 anni. 

Editoriali 30_05_2022

Con la beatificazione avvenuta sabato a Modena di don Luigi Lenzini, ucciso nel luglio 1945 – a guerra finita – da un commando di partigiani comunisti, la Chiesa raggiunge quota due. Tanti sono i beati riconosciuti martiri in odium fidei nel cosiddetto Triangolo della morte. Si tratta del beato Rolando Rivi, seminarista reggiano, ucciso il 13 aprile ’45 da una formazione di gappisti sulle montagne modenesi e don Lenzini, appunto, che era parroco non distante, a Crocette di Pavullo e che fu ucciso al termine di un periodo di attacco fatto di minacce, ritorsioni e una campagna d’odio di cui i suoi parrocchiani furono testimoni.

Si tratta di beatificazioni importanti che da un certo punto di vista contribuiscono a scrivere una pagina importante della storia della guerra civile nascosta dentro la narrazione della Resistenza buona. Nel biennio ’44 ’45 si moriva anche per vendetta politica, non solo per liberare l’Italia dall’invasore nazista, ma anche per farsi giustizia da soli su base ideologica e per affermare l’ideologia comunista che una parte – una parte – dei partigiani ha cercato di imporre con la violenza e l’odio mescolandola con la nobile lotta partigiana.

Invece, l’Anpi di Modena ha dimostrato ancora una volta che su questi temi siamo fermi a 70 anni fa.

Proprio in occasione della cerimonia di beatificazione, che si è svolta alla presenza del prefetto delle cause dei Santi, il cardinale Marcello Semeraro, l’associazione di combattenti di matrice comunista, ormai priva di qualunque protagonista della guerra dato che sono ormai tutti morti, ha scritto una lettera al vescovo di Modena stigmatizzando la beatificazione:
«Il barbaro assassinio di Don Lenzini non può essere in alcun modo attribuito alla lotta partigiana e a chi l’ha combattuta unicamente per liberare il Paese dalla dittatura e dall’occupazione tedesca. (…). Il processo per assicurare alla giustizia gli assassini di Don Lenzini si è concluso con l’assoluzione dei presunti colpevoli, ma ci spingiamo a dire che se anche fosse risultato colpevole un ex partigiano, non alla lotta partigiana e alla Resistenza si potrebbe attribuire quell’omicidio, bensì al singolo uomo che lo ha commesso».

I sospettati del delitto, infatti, vennero assolti per insufficienza di prove, e questo serve all’Anpi per sgravarsi da una responsabilità politica e culturale che invece è perfettamente accertata.

L’Anpi, infatti, tace sul pesantissimo clima di intimidazioni che subì il processo, con testimoni che per paura ritrattarono, e tace sulla precisa ricostruzione dei carabinieri che individuarono nella polizia partigiana e nel Pci di Pavullo, la mente di quel delitto. Delitto che maturò nel contesto delle omelie di don Lenzini, il quale, come molti preti della zona, aveva capito che dietro il fazzoletto rosso di tanti partigiani si nascondeva la volontà di fare giustizia dei nemici del popolo e ne denunciava ai fedeli il rischio anche in ordine all’auspicata ateizzazione della società.

Tutti i preti che si comportavano così facevano quella fine o hanno rischiato di farla. E anche le modalità con le quali don Lenzini venne prelevato di notte e rincorso fin sul campanile dove si era nascosto, erano le stesse dei delitti contro i preti perpetrate all’epoca: un combattente a cui andare a portare il viatico e poi il prete desaparecido o trovato morto.

Che il delitto di don Lenzini sia maturato in ambiente partigiano non c’è dunque alcun dubbio, anche se i colpevoli, nome e cognome non sono stati assegnati alla giustizia. Ma questo è compito dei tribunali, non della Chiesa che con queste beatificazioni sta compiendo una importantissima opera di ricostruzione di una storia che non si è voluto riconoscere a causa dell’egemonia comunista che ha impedito di ammettere che durante la Resistenza si uccideva per odio alla fede.

Da un certo punto di vista infatti, le parole dell’Anpi, sono sicuramente vere: il delitto di don Lenzini non ha a che fare con la lotta partigiana. Vero. Infatti, ha a che fare con il sistematico piano di giustizia arbitraria portato avanti da gappisti, dalle polizie partigiane e dal Pci di eliminazione di scomodi protagonisti della ricostruzione futura dell’Italia. Il fatto che non si sia dato un nome ai colpevoli spesso è per colpa di una giustizia che non ha fatto il suo lavoro e del fatto che se per questo tipo di delitto non si arriva aduna confessione, è difficile trovare le prove di certi omicidi viste anche le incrostazioni di omertà di cui queste terre, su questi temi, sono vittime.

Per dare un nome e un volto agli assassini di don Umberto Pessina, ad esempio, ci sono voluti quasi 50 anni e un processo di revisione clamoroso. Si arrivò ad una parola fine solo dopo che i responsabili, guarda caso ex gappisti sempre protetti dal Pci, confessarono e scagionarono così l’ex sindaco di Correggio che per quel delitto si fece 10 anni di carcere ingiustamente.

Ma la confessione o meno dell’esecutore non sminuisce l’essenza del martirio, che è chiaro e cristallino in tutti i casi, esattamente come in Spagna, dato che non conosciamo tutti i nomi e i cognomi dei rivoluzionari che nel ’36 uccisero i preti.

Nel caso di Rolando Rivi, che è stato il primo, la causa di beatificazione fu supportata da una solida ricostruzione storica comprensiva anche delle tre sentenze di condanna degli assassini; in quello di don Lenzini, pur in assenza di una condanna degli esecutori, è documentato il clima di persecuzione di cui il sacerdote era continuamente bersaglio per mano dei gappisti.

Ma, nonostante i negazionismi dell’Anpi, che lo Stato continua a foraggiare senza alcun motivo, la storia riporta a galla le sue verità.

Se si vuole portare avanti beatificazioni di sacerdoti uccisi in odium fidei nel Triangolo della morte, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ad esempio: per don Umberto Pessina i nomi degli assassini sono già scritti nella sentenza di revisione del 1991, mentre per don Giuseppe Iemmi, il cui martirio è lampante tanto da essere considerato da sempre il vero martire reggiano, ucciso sul monte Fòsola dove era stato condotto come un Cristo sul Calvario, i nomi degli assassini con tanto di nome di battaglia sono scritti nero su bianco perché visti da decine e decine di testimoni oculari: Astro e Briano.