Preti che lavorano: le tentazioni del profetismo à la carte
Un sacerdote ottiene di lavorare in una ditta di arredo urbano. Profezia o ricerca del proprio interesse? La tentazione dell'efficientismo ci dà un'idea distorta del sacerdozio secondo la quale il culto divino e la cura delle anime non bastano se non si aggiungono lavori socialmente utili. Già San Giovanni Paolo II metteva in guardia.
La provocazione lanciata su Facebook da un sacerdote della diocesi di Roma, "esperto di formazione psico-spirituale" e "guida di esercizi ignaziani", merita qualche riflessione. Scrive il sacerdote: "Oggi ho conosciuto un prete, felice di esserlo, che col permesso del vescovo ha cominciato a lavorare part time in una ditta per la manutenzione dell'arredo urbano, nel paese dove svolge il suo ministero in parrocchia. Lui è contento, la gente anche! Moda, tentazione o profezia?"
Con questa domanda, il sacerdote chiede ai suoi followers un'opinione su questa particolare vicenda. I commenti variano tra chi considera l'iniziativa del sacerdote lavoratore una "profezia" per i tempi attuali e chi critica il suo operato perché contrario alla sua missione di pastore di anime. C'è addirittura chi appoggia la scelta, ritenuta necessaria, visto il magro sostegno economico previsto dalle diocesi per il sostentamento del clero.
È d'obbligo una riflessione, visto che quello che è realmente in gioco è il ruolo e la natura del sacerdozio ministeriale e che la questione si situa all'interno di una più larga riflessione trasversale che in questi ultimi anni coinvolge tutta la Chiesa. Si parla infatti molto di clericalismo, di sacerdozio femminile, di sacerdoti sposati, nonché dei peccati dei sacerdoti (abusi, infedeltà e omosessualità dilagante) che molti attribuiscono alla legge del celibato ecclesiastico o alla solitudine affettiva o sociale del clero.
Concesso il beneficio del dubbio sulla necessità di una tale iniziativa, avallata come sembra dal suo Vescovo, la questione sembra mettere in luce una tentazione comune in questo tempo: quella di pensare che il ministero sacerdotale non basti a se stesso, non risponda in maniera piena alla reale vocazione del dono di sé in favore di Dio e del suo popolo. Secondo questa idea - purtroppo sempre più diffusa anche all'interno della Chiesa, sia tra il popolo che tra gli stessi sacerdoti - il sacerdote dovrebbe impegnarsi sempre di più nel sociale per dare pieno compimento e significato alla sua missione. Una smania di uscita che sembra ammaliare chi crede che il servizio divino e la cura delle anime siano servizi non essenziali che non rispondono (non più, o non del tutto) ai bisogni reali della gente comune, che bisogna sempre ascoltare e dalla quale bisogna lasciarsi guidare senza pretendere di insegnare nulla.
Da qui la tentazione dell'attivismo e dell'efficientismo (contro i quali anche papa Francesco ha più volte messo in guardia) per cui è sempre più necessario "fare cose" per compiere in pienezza la propria vocazione religiosa e dimostrare "vicinanza" alla gente. Un'idea distorta del sacerdote secondo la quale il culto divino e la cura delle anime non bastano se non si aggiungono il volontariato o i lavori socialmente utili: dall'edilizia alla cura del decoro urbano, dall'intrattenimento dei giovani con giochi e cinema alla distribuzione di pasti, dagli incontri culturali alle sedute di accompagnamento psicologico, dalla pastorale lgbt e all'accoglienza dei migranti.
A ben vedere, sarebbe necessario porsi qualche domanda per non cadere in facili idealismi lontani dalla realtà. Si afferma che i preti lavorano già in uffici diocesani o nelle scuole come professori. Ma a questo punto, come discernere quale lavoro è adatto a un prete e quale no? Quale categoria di lavoro può considerarsi profetica e quale no? Quale sarebbe il confine tra il romanticismo e il profetismo? Un padre di famiglia ha il dovere di accettare qualsiasi lavoro (compatibilmente con il rispetto della fede e delle leggi) per sostenere la propria famiglia. Ma un sacerdote quale lavoro può accettare per non passare dalla profezia alla ricerca del proprio interesse, visibilità o della carriera?
Sono domande lecite per tornare a mettere i piedi sulla nuda terra quando in queste discussioni si inizia a volare alto e a ragionare sotto vuoto, senza considerare l'attrito o la gravità che caratterizzano la realtà quotidiana. Forse domande utili a capire la complessità delle cose e la sapienza di una Chiesa che ha stabilito il celibato e la cura delle anime secondo criteri più alti rispetto alle rivendicazioni mondane e delle "tentazioni profetiche". Sì, perché quella del "profetismo" può essere una tentazione. Soprattutto se si tratta di un profetismo "fai da te" o "a la carte" che risponde, in ultima istanza, a un tentativo, più o meno creativo e stravagante, di inseguire il mondo, le sue richieste o le sue esigenze, giustificando il tutto come un atto di amore e di vicinanza verso gli uomini.
Sant'Agostino parlava di "carità pastorale" come il principio che guida e anima la vita del sacerdote e che si manifesta nel dono totale di sé. Questa è la vera scelta, l'impegno d'amore (amoris ufficium scrive Sant'Agostino) "per cui la Chiesa e le anime diventano il suo interesse principale", non secondario, in una "dedizione totale, umile e amorosa nei riguardi della Chiesa", scrive san Giovanni Paolo II (Pastores Dabo Vobis, 21). Questa carità pastorale trova la sua fonte e, al tempo stesso, "la sua più alta realizzazione" nell'Eucaristia (Pastores Dabo Vobis, 23) e nella amministrazione dei sacramenti, che offrono agli uomini la salvezza e spianano la strada verso la vita eterna. Si capisce che ciò che è in ballo qui, è molto più che il decoro urbano, qualcosa di veramente profetico che non cambia col passare del tempo e col mutamento delle condizioni socio-culturali: "C'è una fisionomia essenziale del sacerdote che non muta col passare del tempo: il sacerdote di domani infatti, non meno di quello di oggi, dovrà assomigliare a Cristo" (Pastores Dabo Vobis, 5). Solo se si comprende la grave responsabilità che il presbitero ha nei confronti della comunità ecclesiale e per la salvezza del mondo intero, si potrà capire quanto inutile sia che dedichi, anche solo metà della sua giornata ad affari che non contribuiscono minimamente alla propria vocazione e non collaborano alla salvezza di nessuno ma che rispondono ad un goffo tentativo di sostituire l'essere col fare, il cosa col come.
Da qui la necessità di un discernimento serio che aiuti a capire il limite tra ciò che rappresenta un necessario "aggiornamento" per rispondere ai bisogni spirituali del popolo di Dio nell'attuale contesto sociale e il perseguire dinamiche umane per sentirsi meno inutili e più alla moda. Non si vuole infatti negare la necessità - che spesso diventa un'impellente urgenza - di trovare nuove vie per la trasmissione della fede e l'evangelizzazione. Quello che è in questione sono le iniziative personali e le stravaganze spesso motivate da un'insofferenza alle regole e alla tradizione ritenute totalmente "fallimentari"; iniziative che rischiano di sortire l'effetto contrario. Così ci si ritrova con preti influencer sui social che finiscono per trasmettere un messaggio personale (anche su questioni politiche) trascinando follower e presentandosi come il volto nuovo e pulito di una Chiesa (finalmente!) al passo coi tempi. O con giovani suore catapultate sui palcoscenici perché "la chiesa è in uscita" (e poi finiscono per "uscire" troppo offrendo la propria vita in pasto alle cronache).
Questo non toglie la necessità di cercare di "scoprire gli orientamenti della società contemporanea e riconoscere i bisogni spirituali più profondi (...)" per "rispondere in modo adeguato alle attese umane". Ma sempre in obbedienza e in comunione con la tradizione della Chiesa, che è madre e maestra (Giovanni XXIII), e con la convinzione che il ministero sacerdotale ha senso in sé stesso, come proseguimento o continuazione (o ancora "ripresentazione sacramentale") della vita di Cristo, capo e pastore, nel mondo. Linfa vitale del ministero è infatti l'intima unione spirituale con Cristo, che nessuna relazione umana (né contratto di lavoro) potrà mai sostituire. "Questa - scrissero i padri sinodali nel 1990 - è la nostra identità, la nostra vera dignità, la sorgente della nostra gioia, la certezza della nostra vita".