Prefetti, invalidi e baby pensionati: fino a quando?
Quando si ipotizza una riforma pensionistica si parla solo, purtroppo, di ritardare l’età pensionabile di chi va in pensione. Ma solo una decina di giorni fa, l’Inps ci ha informati del fatto che i prefetti prendono una pensione del 40% più alta rispetto ai contributi effettivamente versati. Come si è arrivati a questo risultato?
Quando si ipotizza una riforma pensionistica si parla solo, purtroppo, di ritardare l’età pensionabile di chi va in pensione. Una scelta che, benché giustificabile in un momento in cui l’aspettativa di vita continua a crescere, è quantomeno di retroguardia nei confronti di una serie di sprechi e privilegi su cui dovrebbe dirigersi la mannaia. Giusto una decina di giorni fa in una delle sue “operazioni trasparenza” l’Inps cui ha informati del fatto che i prefetti prendono una pensione del 40% più alta rispetto ai contributi effettivamente versati. Come si è arrivati a questo risultato?
Molto semplice. Sebbene la cassa dei prefetti sia la stessa degli altri dipendenti pubblici, essi godono di «sei aumenti periodici che si aggiungono alla pensione già determinata» ed equivalgono «mediamente ad un importo di circa il 15% della retribuzione rapportata all’anzianità contributiva posseduta». Inoltre, nello stipendio su cui viene calcolato l’assegno, sono comprese anche le indennità per funzioni aggiuntive eventualmente svolte durante la carriera (capo della polizia, commissario straordinario) anche se quando lascia il lavoro il prefetto non le ricopre più. Siamo, di fatto, di fronte a sorta di bonus retroattivo che beneficia il rappresentante del governo per compiti svolti nel passato, anche per breve periodo: una regalia legalizzata che porta la pensione a lievitare di una percentuale compresa fra il 23 e il 56% rispetto al calcolo contributivo.
Lo scandalo dei prefetti deve portarci a riflettere su una serie di sprechi e privilegi di cui godono alcuni pensionati a scapito di altri (e di quelli che devono ancora andare in pensione, specie se giovani). Si pensi ai baby pensionati. Introdotte nel 1973 dal governo di Mariano Rumor in cerca di voti, le baby pensioni permettevano ai dipendenti pubblici di andare in pensione dopo un periodo di lavoro a dir poco ridicolo: 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli; 20 anni per gli statali; 25 per i dipendenti degli enti locali. Si calcola che i beneficiari di questa riforma – abolita per fortuna dal governo Dini nel 1995 – siano stati più di 400mila per un costo per le casse dello Stato che Confartigianato ha stimato in circa 150 miliardi di euro: basti pensare che in 17mila hanno smesso di lavorare a 35 anni di età, mentre altri 78mila sono andati in pensione tra i 35 e 39 anni. E visto che la loro aspettativa di vita stimata è di circa 85 anni, i baby pensionati incassano durante la loro vita almeno il triplo di quanto hanno versato durante la loro attività lavorativa (clicca qui).
Tutt’oggi, sempre secondo Confartigianato, le baby pensioni costano alle casse pubbliche ben 7,5 miliardi di euro, una volta e mezza l’Imu sulla prima casa. Ciò significa che basterebbe abolirle per togliere la gabella più odiosa di tutte, che colpisce le famiglie (clicca qui). Si obietterà che togliere la pensione a persone che, oggi, hanno più di sessant’anni vorrebbe dire condannarle a finire su una strada. Vero. C’è però qualcosa che si potrebbe fare immediatamente, senza togliere uno di quei famosi “diritti acquisiti” (che spesso suonano come privilegi) a nessuno. L’Istat ci informa (clicca qui) che i 16,4 milioni di pensionati e le 23,3 milioni di pensioni sono distribuite in modo a dir poco diseguale sul territorio italiano.
Basti pensare che mentre al Nord Ovest (Lombardia, Piemonte, Liguria, Val d’Aosta) le pensioni di vecchiaia sono il 60% e quelle assistenziali il 13,1%, al Sud (Campania, Calabria, Puglia, Molise, Basilicata) quelle di vecchiaia sono il 42,2% e quelle assistenziali il 26,4%; nelle isole, infine, le percentuali toccano rispettivamente il 40,1% e il 28,2%. Ciò vuol dire, in soldoni (i nostri), che in meridione la percentuale di persone con problemi fisici irreversibili è più che doppia rispetto al Nord.
Senza ovviamente fare i leghisti alla vecchia maniera e considerando che effettivamente al Sud la sanità è di qualità inferiore, la discrepanza ci sembra comunque francamente eccessiva. Non sarà, forse, che al dato contribuiscono i falsi invalidi che, obiettivamente, sono più numerosi al Sud che al Nord. Sempre secondo dati ufficiali al Sud le pensioni di invalidità civile rappresentano il 22,96% del totale delle pensioni erogate nell'area (1,25 milioni su 5,47 milioni assegni totali), una percentuale doppia rispetto al Nord (all'11,36%, meno di un milione su 8,77 milioni). Si potrebbero inasprire i controlli sui falsi invalidi e più in generale sui pensionati che, grazie a un medico compiacente, hanno certificato malattie inesistenti (tipo la signora cieca che guidava la macchina, quella che portava a spasso il cane, il calciatore e lo showman clicca qui). Si libererebbero, in questo modo, risorse per chi ne ha davvero bisogno.
E c’è un terzo ambito in cui il sistema pensionistico presenta notevoli ingiustizie: il sistema retributivo. Quel sistema, adottato fino al 1992, che dava a ciascun singolo contribuente una pensione ben più alta dei contributi effettivamente versati nel corso della propria carriera lavorativa. Quanto in più? Tanto, fino a tre volte e mezzo. Secondo i calcoli di Confindustria con un montante di contributi versati pari a 100 ciascun pensionato col retributivo può ottenere fino a oltre tre volte e mezzo quel valore: da 162 dei dipendenti del settore privato ai 368 delle donne del settore artigiano e del commercio (clicca qui). In concreto significa che, a fronte di mille euro di contributi effettivamente versati, una pensionata col retributivo puro poteva arrivare a prendere fino a 3.680 euro di pensione.
Ma anche alcune pensioni erogate dal 2008 al 2012 – col cosiddetto sistema misto - sono troppo alte rispetto ai contributi: come riferisce un articolo de La Voce (clicca qui) le pensioni erogate in quel periodo potevano avere uno scostamento fra contributi e assegno versato fino al 34%, con una percentuale di ‘regalo’ che – tra l’altro - cresceva con l'aumentare dell’assegno. Una discrasia che non crea ingiustizie solo fra i pensionati, ma anche (e soprattutto) fra pensionati e nuove generazioni. Sono infatti i lavoratori più giovani a dover sopportare, sulle proprie spalle, un debito pensionistico che ha raggiunto livelli insopportabili (clicca qui), in un momento in cui – tra l’altro – si ha difficoltà a trovare lavoro e mettere su famiglia.