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TERRORISMO

«Possiamo vincere la guerra con gli jihadisti»

Siamo in guerra, una guerra asimmetrica. Per lo storico militare Alberto Leoni, l'islam è una religione guerriera, al suo interno chiunque può trarre gli spunti per lanciare un conflitto. Ma ha al suo interno gli anticorpi necessari a resistere al veleno terrorista. Possiamo vincere la guerra alleandoci con i musulmani che combattono gli jihadisti, così come durante la Guerra Fredda vincemmo alleandoci con i dissidenti dell'Est.

Esteri 02_08_2016
Copertina di Dabiq contro la solidarietà a Charlie Hebdo

Siamo in guerra o no, con gli jihadisti? A corrente alternata, i media internazionali usano la guerra come titolo per poi specificare, con gran confusione per i lettori, che non siamo in guerra con un terrorismo islamico. La stessa cancelliera Angela Merkel, dopo aver invitato a “non generalizzare” sul terrorismo, ha poi dichiarato che “siamo in guerra”.

Siamo di fronte a un fenomeno nuovo, che può trarre in confusione? Oppure fra mondo islamico e mondo cristiano ci sono stati 1400 anni di lotta e tregue? Per comprendere appieno il periodo che stiamo vivendo in questi anni, La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Alberto Leoni, storico militare, autore di  La croce e la mezzaluna (Ares 2002), storia dei secoli di conflitti fra islam e cristianità, oltre a Storia militare del cristianesimo (Piemme 2005) e La Quarta Guerra Mondiale: origine e cronache (Ares 2007)

Dottor Leoni, con gli attentati jihadisti in Europa di questa estate, è giusto affermare che “siamo in guerra”, come hanno dichiarato sia il presidente francese François Hollande che la cancelliera tedesca Angela Merkel?

Bisogna chiedere sia alla Merkel che a Hollande che cosa intendono per “guerra”. Se la concezione che ne hanno è quella convenzionale, se i loro ricordi risalgono alla Seconda Guerra Mondiale, sono completamente fuori strada. Se invece, come penso, intendono una guerra asimmetrica, dove tutte le risorse di una nazione sono coinvolte, allora hanno ragione. Dove dico “tutte le risorse”, intendo: risorse culturali, economiche e anche militari. Queste ultime sono in gioco, in proporzione rilevante ma minoritaria. Abbiamo illustri precedenti di guerre asimmetriche, non è un fenomeno del tutto nuovo.

Ci faccia un esempio…

Niente meno che la Guerra Fredda: è durata dal 1944 (anno dei primi scontri fra comunisti e Alleati in Grecia) al 1991 (anno della dissoluzione dell’Urss), è stata guerra guerreggiata in tutto il resto del mondo ed è rimasta “congelata” solo in Europa. Si è trattato di una guerra più che “calda” in Asia, basti pensare ai 30mila uomini che gli americani hanno perso in Corea e ai 50mila caduti in Vietnam. Gli Usa hanno subito 100mila fra morti e dispersi su fronti extra-europei, loro la guerra l’hanno combattuta veramente. Noi no: in Europa, Nato e Patto di Varsavia si sono fronteggiati lungo la cortina di ferro, per decenni. Come si rimediava a questo stallo in Europa? Per decenni è stato il comunismo sovietico a prendere l’iniziativa, con una straordinaria capacità di usare la propaganda per condizionare le idee della gente. Una capacità che, dall’altra parte, le democrazie liberali non avevano. Negli anni ’70, i comunisti stavano vincendo questa battaglia ideologica. Il filosofo e politologo James Burnham, per spiegarlo, aveva ribaltato il classico motto di von Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” in “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Nel senso che si possono raggiungere obiettivi militari attraverso metodi non violenti. Alla fine anche il mondo libero vinse senza sparare un colpo, con maestri di “guerra non guerreggiata”, come i dissidenti nell’Est, Solidarnosc, lo stesso papa Giovanni Paolo II. Semplicemente, i cittadini dell'Est, smisero di credere nei loro sistemi e li svuotarono, votarono "coi piedi", li fecero collassare.

Come si può far fronte alla nuova minaccia e vincere?

Partiamo dai fatti: l’Italia non ha ancora subito (mentre questo articolo viene scritto) grandi attentati jihadisti. Però numerosi progetti sono stati intercettati e prevenuti in tempo. Le nostre forze dell’ordine, anche grazie all’esperienza della lotta al terrorismo rosso, hanno imparato bene a collaborare e dialogare fra loro, abbiamo una magistratura inquirente che fa da collettore di tutte le informazioni raccolte e abbiamo dei servizi di intelligence che funzionano. Un altro motivo della nostra pace è che, sinora, si è evitata la formazione di ghetti islamici. Dove anche ci sono, non sono casi così clamorosi come le banlieue in Francia o il quartiere di Molenbeek a Bruxelles. Una “guerra” come questa si vince o si perde per la capacità di ognuno di sapersi guardare intorno. Si vince o si perde nei rapporti singoli, spiccioli, quotidiani, come un insegnante che dà lezioni di italiano a ragazzini musulmani immigrati nel suo quartiere, per evitare che si ghettizzino. E rapporti di fiducia, per far prendere coscienza di sé alle ragazze. Perché la riforma che tutti auspichiamo, nel mondo islamico, passa attraverso l'universo femminile.

Questo è l’aspetto non guerreggiato e interno di questo conflitto. Un intervento armato sarebbe auspicabile?

La distruzione dello Stato Islamico è necessaria, perché rappresenta un polo di attrazione e di ispirazione per tutti gli jihadisti. Qualsiasi balordo che abbia in testa un’idea forte, va ad arruolarsi nello Stato Islamico. Cominciamo ad abbattere questo mondo recluso in cui la legge coranica viene applicata in modo “puro”. La distruzione del Califfato è già a buon punto: solo in questo anno ha perso un terzo dei territori conquistati. Entro la fine del 2016 si dovrebbe arrivare alla liberazione di Raqqa e di Mosul, le sue due principali roccaforti. Anche dopo la distruzione dello Stato Islamico, la questione non sarebbe risolta, però. Occorrerà ricostruire. Ci sarà bisogno di un intervento di stabilizzazione, con tutti i rischi che ne conseguono.

Dopo l’esperienza in Iraq, però, parlare di nation building è politicamente molto difficile…

Eppure è possibile. Dopo anni di rovesci, il generale Petraeus aveva mostrato come vincere la guerra, alleandosi con le tribù sunnite del “risveglio”. La sua idea centrale era: la guerra la devono vincere gli iracheni, i musulmani. E solo attraverso questa alleanza ha ribaltato la situazione. Nei primi mesi del 2007, Petraeus fece correre ai militari americani rischi molto maggiori rispetto al passato e il prezzo in termini di vite umane fu alto. Ma le perdite diminuirono bruscamente nei mesi immediatamente successivi: la strategia di uscire dalle basi, con coraggio e audacia, ebbe successo. Certo noi abbiamo una mostruosa capacità di dimenticare le lezioni, anche quelle di pochi anni fa. Abbiamo un esempio di strategia vincente e non ne abbiamo fatto tesoro.

C’è anche un altro problema, però. Come fare a combattere un nemico di cui non si ammette neppure l’esistenza?

Purtroppo, semplificare la realtà non serve a niente a nessuno. C’è un mantra che recita “l’islam è una religione di pace e non ha nulla a che fare col terrorismo”. Ma questo purtroppo non è vero: chi vuole, può trovare, all’interno della tradizione e della letteratura dell’islam, gli elementi necessari a giustificare la guerra. Detto ciò, è anche vero che (e questa è una cosa che non trovo veramente da nessuna parte), l’80% degli attentati avvengono in Iraq e in Pakistan, dove i morti sono quasi esclusivamente musulmani. Specie in Pakistan, i terroristi sunniti uccidono altri sunniti, non c’è nemmeno la giustificazione dello scontro settario fra sunniti e sciiti. Chi sta realmente combattendo contro il terrorismo? Altri musulmani. Stanno combattendo la nostra battaglia, come i dissidenti e i cristiani dell’Est europeo durante la Guerra Fredda. E questa è una cosa di cui dobbiamo essere consapevoli e convinti. I numeri parlano chiaro, la realtà è testarda: l’islam è una religione guerriera, ma ha al suo interno gli anticorpi necessari a resistere al veleno terrorista. L’Isis è quella follia che distrugge i luoghi più belli e più sacri dell’islam, come i santuari sufi e sciiti, tesori dell’umanità. E poi c’è chi prova a resistere. C’è l’attentatore suicida che si fa esplodere per uccidere indiscriminatamente, ma ricordo anche che, nel gennaio del 2005, durante le prime elezioni in Iraq, in cinque punti diversi di Baghdad, poliziotti iracheni si lanciarono contro gli uomini-bomba e preferirono morire loro stessi per sventare la strage. Un esempio luminoso è quello del comandante Massoud, che resistette ai Talebani e fu da essi ucciso alla vigilia dell’11 settembre 2001. In una preghiera recitava: “Ringrazio l’Onnipotente che ci ha dato la Sua forza e la Sua gentilezza, per resistere a questa gente lontana da Dio”. E parlava dei Talebani. La sua lezione non è mai stata fatta nostra.