Polvere Rossa, la gratuità della missione
Ritratto dal vivo dell'ospedale missionario di Chaaria, Kenya, in Polvere Rossa, libro scritto a quattro mani da fratel Beppe Gaido e dalla giornalista Maria Pia Bonanate. Tutt'altro che una "città della gioia", è un microcosmo che contiene tutti i mali d'Africa. Si lavora "Donandoci gratuitamente senza aspettarci alcuna restituzione o riconoscenza”.
La democrazia non si esporta, non mette radici dove non è apprezzata. Le istituzioni democratiche svuotate di sostanza diventano anzi strumenti di legittimazione di regimi autoritari e del potere usato male. Neanche lo sviluppo si esporta. Quanti “Piani Marshall” hanno riversato miliardi di euro sull’Africa, tentando varie formule: e sono falliti per mancanza di impegno e volontà da parte dei destinatari dei finanziamenti.
Quel che si può fare invece è soccorrere le vittime di povertà, ingiustizia, discriminazioni, incuria. È possibile, ma non è facile neanche questo. Per pudore e modestia i missionari, quando descrivono le loro iniziative, non raccontano l’enormità di lavoro, le difficoltà talvolta insormontabili, soprattutto lo sconforto che li assale nel constatare che, malgrado gli sforzi, l’impegno, la dedizione totale, quel che ottengono pare una goccia nel mare di una umanità che è e rimane bisognosa di aiuto, sofferente, provata da nuove disgrazie, privazioni, lutti.
Si capisce e si apprezza il ritegno dei missionari. Ma chi li ascolta finisce per formarsi un’idea del contesto e delle condizioni in cui operano diversa dalla realtà. Così, ad esempio, l’ospedale del Cottolengo di Chaaria, in Kenya, diretto dal medico missionario fratel Beppe Gaido, viene immaginato come “una piccola città della gioia”, popolata da persone che riescono “ad affrontare con naturalezza ogni sorta di avversità, a celebrare la sacralità e la bellezza dell’esistenza. A salvare quella capacità di sognare che nessuno e niente potrà mai annientare”: è quanto si legge nella postfazione di Francesco Bevilacqua al libro Polvere rossa (Edizioni San Paolo, 2015) in cui fratel Gaido, insieme alla giornalista Maria Pia Bonanate, racconta la propria vita al servizio dei reietti.
L’ospedale di Chaaria è stato fondato nel 1984, è l’unico presidio sanitario in un raggio di decine di chilometri e serve quattro distretti. Oggi dispone di 160 posti letto, due sale operatorie, un reparto maternità e un ambulatorio. Vi lavorano due medici. In media assiste 65.000 persone all’anno. Il tasso di mortalità è del 3%. Nel 2014 sono stati eseguiti 2.900 interventi chirurgici e sono state seguite 1.500 partorienti, per 650 delle quali si è reso necessario il taglio cesareo. L’ambulatorio, aperto tutti i giorni, 24 ore su 24, accoglie e visita in media 300 persone al giorno.
L’esistenza della struttura ospedaliera ha creato un consistente indotto, per il povero villaggio di Chaaria un “boom” economico provvidenziale. Un mercato si tiene proprio davanti ai suoi cancelli.
Eppure tutto si può dire dell’ospedale di Chaaria salvo che sia una “città della gioia” dove gente piena di sogni celebra la bellezza dell’esistenza. La sofferenza vi regna ogni giorno, al limite della sopportazione. Tra le scene più commoventi evocate nel libro, quelle delle mamme che consegnano fiduciose alle cure di fratel Gaido i figli ormai morenti, portati in braccio per giorni e chilometri a piedi, e cercano nello sguardo del medico la conferma che riuscirà a salvarli; e i tanti, troppi bambini ricoverati in condizioni disperate per aver patito fame, violenze, malattie senza che nessuno avesse cura e pietà di loro, molti dei quali, se guariscono, non hanno altra prospettiva che la strada dove accattonare, raccogliere rifiuti e rubare, annusando colla per non sentire fame, freddo e paura. Fratel Gaido poi non nasconde il lato oscuro di un’umanità esausta, raramente capace di progetti e spesso neanche più di sentimenti: come i genitori che ricoverano i figli e non tornano a riprenderli, vivi o morti che siano, come quel marito che pretende per sua moglie un’operazione superflua, perchè l’assistenza in ospedale è gratuita mentre le medicine costano e lui non ha intenzione di acquistarle, come i pazienti dimessi che se ne vanno rubando medicinali e indumenti oppure promettono piccole offerte e poi non si fanno più vedere, perchè tanto “i bianchi sono ricchi”.
Non è questo però che scoraggia fratel Gaido: i poveri “non sono di necessità migliori degli altri”, anzi la povertà “esaspera ed esalta gli istinti peggiori dell’uomo”. Continuerà fino alla fine a servire i suoi malati “con un sano realismo e con la doverosa coscienza che noi missionari dobbiamo fare ogni cosa prima di tutto per Dio. Donandoci gratuitamente senza aspettarci alcuna restituzione o riconoscenza”.
La sua preoccupazione è per l’ospedale, che abbia un futuro dopo di lui, anche senza finanziamenti e medici stranieri. Pensa a tutti gli ospedali sostenuti e amministrati dai missionari, in rovina in pochi mesi dopo essere stati affidati a dirigenti e personale africano. Occorre – dice – impegnarsi per “africanizzare” i servizi – scuole, ospedali, asili, mense... – coinvolgendo nel loro sostentamento la popolazione locale e, nel caso degli ospedali, gli operatori sanitari, i medici, gli infermieri: “cercando di far loro capire che, se vogliono che queste realtà abbiano un futuro, devono gradualmente contribuire a sostenerle, facendo ciascuno la propria parte”.
Non si può che concordare con lui, se si ha esperienza d’Africa: “è un’impresa difficile, ma è anche l’unico modo perchè l’Africa trovi una via d’uscita dalle sue endemiche situazioni di povertà e cammini verso un futuro che veda la sua gente protagonista del proprio destino”.