Più dello spread contano le culle vuote
Inutile dare la colpa ai mercati. In venti anni la popolazione di età tra i 20 e i 24 anni si è ridotta di un terzo: è questo il fattore più grave alla base della crisi che viviamo, ed è anche il più dimenticato. E gli stessi giovani sono le prime vittime.
In questi ultimi mesi i mercati finanziari sono stati al centro dell'attenzione, nel bene, ma soprattutto nel male, dando l'impressione di aggravare i problemi economici anziché aiutare a risolverli. Ma il più delle volte perché si sono dati giudizi e interpretazioni lontani dalla realtà.
In primo luogo perché il più delle volte i "mercati" vengono considerati alla pari degli esseri umani, e quindi dotati di pensiero e razionalità, di obiettivi e di strategie da perseguire. Invece i mercati non sono né intelligenti, né stupidi, ma intelligenti o stupidi possono sicuramente essere coloro che li osservano e che li giudicano.
Ecco, una delle poche coincidenze con l'immagine della persona è che i mercati si muovono, ma si muovono non per l'impulso di una intelligenza univoca in qualche modo razionale, ma sulla spinta di migliaia di decisioni contemporanee dettate, queste sì, da motivazioni umane che possono tuttavia essere sia razionali che emotive, sia logiche che derivanti da previsioni illusorie ed arbitrarie.
Fatte queste premesse cerchiamo di svelare quello che può sembrare un paradosso dei mercati: il fatto che lo spread BTP- Bund, la differenza di rendimento tra i titoli tedeschi e quelli italiani, fosse schizzato oltre i 700 punti nell'autunno 2011, dopo due manovre correttive dei conti pubblici varate dal governo Berlusconi, e sia sceso sotto la rassicurante quota 300 nelle scorse settimane, in piena crisi politica e nel mezzo di gravi incertezze istituzionali.
Partendo dalla premessa che è comunque arbitrario tentare delle spiegazioni razionali a vicende che del tutto razionali non possono essere, è forse opportuno mettere in risalto le differenze tra i due periodi, magari solo per smentire le ipotesi di un complotto dei poteri forti capaci di trarre guadagni dalle disavventure altrui.
E' così vero che nel 2011 il Governo Berlusconi aveva adottato in pieno agosto due manovre finanziarie per riequilibrare i conti pubblici, ma con effetti contrari a quelli voluti. In primo luogo perché più che curare la malattia questi interventi avevano riconfermato l'esistenza di gravi problemi. Le due manovre avevano due pesanti limiti: rimandavano gli interventi più incisivi a due anni dopo e mancavano di qualunque elemento strutturale per l'opposizione della Lega ad un anche limitato intervento sulle pensioni. Lo stesso Governo poi era in una situazione di grave fragilità con una maggioranza per nulla sicura come aveva dimostrato il voto negativo del Parlamento sul documento di bilancio. E peraltro le turbolenze finanziarie, come la crisi greca, creavano le condizioni per l'addensarsi delle nubi sulla realtà italiana.
Nella primavera di quest'anno le condizioni sono del tutto diverse. In Grecia, come a Cipro, l'Europa ha dimostrato di non voler permettere l'aggravarsi delle crisi finanziarie. L'Italia, con il Governo Monti, ha dato avvio ad alcune riforme strutturali, quella delle pensioni innanzitutto, destinate ad evitare contraccolpi sulla spesa pubblica a medio termine. Le offerte di titoli di Stato da parte del Tesoro hanno avuto una buona accoglienza anche per l'abbondante liquidità detenuta da famiglie e imprese (liquidità che tuttavia è l'altra faccia della medaglia del calo dei consumi ed è quindi un segnale negativo sul fronte dell'economia reale).
I mercati quindi sono solo uno specchio della realtà, sono il riflesso dell'economia reale, possono essere il termometro che segnala la febbre, ma non hanno certo un'intelligenza, né tanto meno un'anima.
I problemi dell'Italia non stanno nello spread, stanno in una dinamica strutturale che non è stata per nulla contrastata dalle politiche economiche degli ultimi trent'anni. I quattro lati della crisi si chiamano infatti: 1) un trend demografico che ha svuotato le classi di età più giovani; 2) una burocrazia che unita al peso del fisco ha frenato la capacità di spesa e di investimenti delle famiglie e delle imprese; 3) una politica sindacale unita a gestioni aziendali che non hanno prodotto aumenti di produttività; 4) un insieme di politiche pubbliche (dalla giustizia inefficiente alla carenza di infrastrutture) che hanno penalizzato il "fare impresa".
Il primo punto è quello più importante e maggiormente dimenticato. Eppure basta pensare che nel 2012 le classi di età tra i 20 e il 24 anni superano di poco i tre milioni di persone mentre le classi di età tra i 40 e i 45 anni (quelle che vent'anni fa avevano appunto 20/24 anni) comprendono quasi 4,8 milioni per vedere come il numero di giovani si sia ridotto di oltre un terzo. E questo vuol dire meno consumi, meno famiglie, meno domanda di abitazioni, meno spinte alla dinamica dell'economia. E sono gli stessi giovani le prime vittime con il tasso di disoccupazione più alto della storia italiana.
Altro che tirannia dei mercati. Le origini della crisi italiana sta nelle culle vuote molto più che nello spread.