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Pilato, quel dettaglio che conferma i Vangeli

Pochi dubbi sull’esistenza storica di Ponzio Pilato. Ma dai Vangeli di Matteo e Luca emerge un dettaglio di estremo interesse: Pilato non è mai definito "procuratore". Una svista storica o una conferma della precisione degli evangelisti?

Catechismo 24_07_2022

Dell’esistenza storica di Ponzio Pilato nessuno dubita. Chi non si accontenta delle oltre sessanta menzioni nei libri del Nuovo Testamento – dove compare con il doppio nominativo, con il solo Pilato (la forma più diffusa), oppure con il solo titolo di “governatore” – può trovare due conferme in autori non cristiani. Il primo è lo storico Publio Cornelio Tacito (55-120 ca), che menziona il procuratore romano nel noto passo degli Annales (15,44), in cui parla dell’odio di Nerone verso i cristiani: «si inventò dei colpevoli e colpì con supplizi raffinatissimi coloro che il popolo, odiandoli per i loro delitti, chiamavano Crestiani. Prendevano il loro nome da Cristo, che sotto l’imperatore Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato».

Poco prima di Tacito, un altro storico, Flavio Giuseppe (37-100 ca), menziona Ponzio Pilato sia nelle Antichità Giudaiche (XVIIII, 95) che, più volte, nel secondo libro della Guerra Giudaica. In particolare, al capitolo nono di quest’ultimo libro, Flavio Giuseppe riferisce di «Pilato, che Tiberio aveva inviato in Giudea come procuratore». Il termine utilizzato per definirne la carica è épitropos: si tratta di un dettaglio che, come vedremo, è di estrema importanza.

Un’ulteriore conferma ci viene dall’archeologia. Nel 1961, durante degli scavi a Cesarea di Palestina, venne scoperta una pietra di dimensioni 82 x 65 cm, oggi conservata al Museo archeologico di Gerusalemme, che riporta un’iscrizione limitata, ma significativa:

S TIBERIÉUM

[PON]TIUS PILATUS

[PRAEF]ECTUS IUDA[EA]E

É

La pietra era stata riciclata per la costruzione dei gradini del teatro di Cesarea e lì venne ritrovata. Essa ci offre alcuni elementi storici decisivi, che confermano quanto troviamo nei vangeli: il contesto temporale dell’impero di Tiberio (14-37 d.C.), il nome proprio di Pilato e la sua carica di prefetto di Giudea.

Nella sua interessantissima serie di video su Bibbia e archeologia (arkeos.tv), Patrick Vauclaire fa notare che, dalle differenti fonti storiche sopra riportate, Pilato viene definito in tre modi differenti. Per i Vangeli è semplicemente héghémon, termine che indica generalmente un dirigente o un governatore, colui che è posto a capo di qualcosa; Flavio Giuseppe gli attribuisce invece il titolo più specifico di épitropos, procuratore; ed infine l’iscrizione di Cesarea lo indica come praefectus Idaeae.

Perché queste tre differenti attribuzioni? E, soprattutto, perché gli evangelisti, in particolare Luca, utilizzano un termine così vago? E’ segno dell’imprecisione o addirittura dell’errore dei Vangeli?

Effettivamente, all’epoca della morte di Gesù, la carica di procuratore era già esistente, ma non corrispondeva all’effettivo potere che Pilato mostra di avere nei Vangeli. Il procuratore era più che altro un funzionario amministrativo, che aveva dunque poteri piuttosto limitati e non giudiziari; men che meno quello di poter decidere della vita e della morte di qualcuno. E’ solamente sotto l’impero di Claudio (41-54) che ai procuratori viene esteso anche il potere giudiziario.

Questa precisazione storica spiega due cose: anzitutto, come mai Flavio Giuseppe lo indichi come épitropos; perché effettivamente, all’epoca in cui egli scrive, i procuratori avevano già ricevuto un’estensione dei propri poteri. E poi perché nei Vangeli non si trovi la carica di procuratore, riferita a Pilato: appunto perché all’epoca in cui si svolgono i fatti del processo e della condanna di Gesù, Pilato non era un semplice procuratore. L’iscrizione di Cesarea ci aiuta a capire che era prefetto di una provincia, che non aveva una magistratura propria. Ecco perché Pilato poteva e doveva esercitare anche la funzione giudiziaria. La scelta del vocabolo héghémon, da parte di Matteo e Luca, è dunque corretta ed è tra l’altro letteralmente affine al termine praefectus, in quanto entrambi significano letteralmente “colui che precede, che è messo innanzi”.

La scelta dei due evangelisti di non utilizzare il termine “procuratore”, ma quello più ampio di “governatore” non dimostra solo la coerenza storica, ma è un’ulteriore conferma che i loro Vangeli sono stati scritti temporalmente molto più vicino agli avvenimenti narrati di quanto ritenuto dalla critica moderna. Se infatti fossero stati scritti in epoca più tardiva, come per esempio la Guerra Giudaica di Flavio Giuseppe, o in ogni caso dopo il tramonto dell’Imperatore Claudio, anche i Vangeli avrebbero utilizzato il titolo di procuratore.

Luca, in particolare, ha sempre prestato molta attenzione alla precisione storica della sua narrazione. Come dimostra un secondo dettaglio che Patrick Vauclaire porta all’attenzione. Siamo questa volta nel capitolo 17 degli Atti degli Apostoli; i Giudei, indispettiti dalla predicazione di Paolo e Sila e dalle conversioni che Dio operava per mezzo della loro parola, «presentatisi alla casa di Giasone, cercavano Paolo e Sila per condurli davanti al popolo. Ma non avendoli trovati, trascinarono Giasone e alcuni fratelli dai capi della città» (17, 5-6). Nel testo greco, Luca utilizza un termine ben preciso per indicare questi capi: politarkès; un vocabolo “speciale”, perché non si trova da nessun’altra parte se non in questo testo, al punto che alcuni critici hanno ritenuto che si trattasse di un’errore o di un’invenzione di Luca.

Invece, nel 1740 l’inattesa scoperta. Venne pubblicato il testo di un’iscrizione ritrovata sui resti di un arco della Porta Vardar, a nord della Macedonia, uno dei tanti archi presenti della Via Egnatia o Ignazia, un’antica via di comunicazione di oltre mille chilometri, che collegava Dyrrhachion (Durazzo) con Bisanzio e che passava proprio per Tessalonica. Questo il testo dell’iscrizione: «Erano politarchi : Sosipatro, figlio di Cleopatra, e Lucio Ponzio Secondo, Publio Flaviano Sabino, Demetrio...». La pietra, che si trova oggi al British Museum, è la prima conferma (non biblica) della correttezza del testo di Luca. Nel 1962 un’ulteriore definitiva conferma. Carl Shuler pubblicò un elenco di 32 iscrizioni che riportavano il termine “politarchi”: ben 19 di queste iscrizioni provenivano da Tessalonica, alcune delle quali risalenti al I sec. d. C. Luca era dunque nel giusto.

Ancora una volta dei dettagli, forse poco significativi per chi scriveva all’epoca, ma che secoli più tardi diventano la prova della piena autenticità di questi testi e rivelano la grande precisione di Luca, la sostanza di quelle «ricerche accurate su ogni circostanza» (Lc 1, 3) che egli, nella dedica a Teofilo del suo Vangelo intende sottolineare, perché in ogni epoca ci si possa «rendere conto della solidità degli insegnamenti» (1, 4) ricevuti.